il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2021
Taranto avrà la sua sentenza dopo 5 anni. Il punto sul maxiprocesso Ambiente svenduto
Cinque anni di dibattimento, decine di imputati, centinaia di udienze, quasi mille parti civili. Sono i numeri del maxi processo “Ambiente svenduto” sul disastro ambientale e sanitario di Taranto su cui a breve arriverà la sentenza di primo grado. Da quasi una settimana la Corte d’assise è rinchiusa in Camera di consiglio nei locali blindati della Scuola sottufficiali della Marina militare: i giudici, togati e popolari, stanno analizzando tutti gli elementi emersi nel corso del dibattimento per stabilire la colpevolezza o l’innocenza dei 47 imputati di cui 44 persone fisiche e 3 società. Per la procura ionica, che ha chiesto 35 condanne per quasi 400 anni di galera, quel disastro è stato causato dalle emissioni nocive della fabbrica gestita tra il 1995 e il 2012 dalla famiglia Riva.
Disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro: sono solo alcuni dei reati contestati dall’accusa ed è su questo e su altro che ora la corte d’assise sta valutando se, in base alle prove raccolte nel processo, si potrà confermare che i veleni che hanno ammorbato la città, causando malattia e morte, siano stati sprigionati dallo stabilimento siderurgico come hanno certificato i periti del tribunale durante le indagini. Per l’accusa non c’è alcun dubbio. La procura ritiene di aver dimostrato come attraverso la logica del massimo profitto con il minimo sforzo economico sull’ammodernamento degli impianti, la gestione Riva abbia tutelato la produzione a danno dell’ambiente e della salute di operai e cittadini.
Il collegio difensivo ha invece sostenuto, attraverso una serie di consulenze, che gli inquinanti ritrovati nei terreni, nelle pecore abbattute e nelle acque intorno allo stabilimento non sarebbero di provenienza Ilva, ma sprigionate da altri impianti industriali presenti nel territorio tarantino. I difensori, oltre ai documenti, hanno portato in aula anche alcune testimonianze come quella di un ex consulente della procura che ha parlato dell’insabbiamento di un fascicolo di indagine che indicava nelle attività della Marina militare le azioni che avrebbero avvelenato il Mar Piccolo di Taranto.
La sentenza che sarà emessa nei prossimi giorni dovrà accertare anche se ai Riva sia stato fornito un appoggio determinante da parte della politica locale e regionale. A processo, infatti, oltre a Fabio e Nicola Riva – che rischiano rispettivamente 28 e 25 anni di carcere – sono finiti anche l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano, l’ex presidente della Provincia Gianni Florido e l’ex Governatore di Puglia Nichi Vendola. E se per l’ex primo cittadino il reato è ormai prescritto, per Florido e Vendola la procura ha chiesto la condanna rispettivamente a 4 e 5 anni di carcere.
Per Vendola, in particolare l’accusa è di aver fatto pressioni su Giorgio Assennato, ex direttore generale di Arpa Puglia, affinché ammorbidisse la sua linea nei confronti della fabbrica. Anche Assennato, che ha sempre negato quelle pressioni, è finito a processo: accusato di favoreggiamento a Vendola rischia la condanna a un anno di carcere. L’ex dg Arpa per i dirigenti Ilva era l’uomo “da distruggere” perché per limitare la diffusione di un inquinante cancerogeno come il benzo(a)pirene, propose alla Regione di limitarne la produzione. Nel suo ultimo intervento in aula, Assennato ha spiegato di voler rinunciare alla prescrizione perché certo di aver “sempre difeso la salute degli abitanti del quartiere Tamburi” e poi ha lanciato un duro attacco alla Regione guidata allora dall’ex leader di Sinistra Ecologia e Libertà sostenendo che nel 2010 avrebbe potuto cambiare la gestione della vicenda Ilva riducendo la produzione di acciaio nei giorni di vento, ma scelse una strada diversa. “È come se l’autorità politica – ha spiegato alla Corte – avendo un vaccino in mano rinunciasse a usarlo per contenere un’epidemia”.
Il verdetto dovrà inoltre chiarire se davvero i dirigenti Ilva versarono una tangente di 10mila euro all’ex consulente della procura Lorenzo Liberti per “aggiustare” una perizia. E poi stabilire se gli incidenti mortali in cui hanno perso la vita gli operai Francesco Zaccaria e Claudio Marsella siano stati causati da negligenze aziendali e se allevatori di bestiame, di cozze e centinaia di altre persone offese costituite in giudizio, abbiano o meno diritto a un risarcimento. La Corte d’assise, insomma, ha il compito di spiegare se questa terra sia stata violentata da polveri e gas, tenuta sistematicamente sotto il ricatto occupazionale, avvelenata al punto da raggiungere livelli impressionanti di malattie anche nei bambini con pochi mesi di vita, solo per il denaro.