ItaliaOggi, 26 maggio 2021
Il giovane Sciascia vedeva un film al giorno
Sono in quattro, a Enna, l’unica provincia siciliana che non si affaccia sul mare, tutti appassionati di cinema: Guido Aristarco, Antonio Maddeo, Leonardo Sciascia, Liborio Termine; è il 1969, fondano il «Centro Studi Cinematografici»; l’attività principale del Centro è il cosiddetto «cinema di piazza»: proiezioni nelle piazze dei piccoli centri della provincia, e in seguito stimolare e discussioni tra gli spettatori, per lo più contadini e zolfatari.
Sciascia e il cinema: un rapporto di amore, ma anche diffidenza, coinvolgimento e distacco insieme. Lui stesso racconta che da giovane frequenta moltissimo le sale cinematografiche: cinema come «il luogo dell’emozione: come tale, confinato nell’infanzia e nell’adolescenza, territori delle emozioni per eccellenza». Indelebili impressioni, volti che s’imprimono nella memoria: Jack Holt appare nello schermo del teatro comunale di Racalmuto adibito a sala cinematografica, in un lontano 1929; o la «maschera» di Ivan Mosjouskine, interprete del Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier.
A dodici anni Sciascia scopre il sonoro: in occasione del suo primo viaggio a Palermo nel 1933: «Entrando nella sala ne ebbi un senso di frastornazione, di stordimento, addirittura non capivo. A capirlo, restai a vedere il film per la seconda volta. Era Il segno della croce, mi piacque moltissimo: ma più mi piaceva tornare a vedere, al mio paese, i vecchi film muti». Il segno della croce di Cecil B. De Mille è un drammone storico tratto da un romanzo di Wilson Barrett, ambientato nella Roma del ’64 d. C.: Fredric March è il prefetto di Roma, Marco Superbo, Elissa Landi Marzia, giovane martire cristiana, Claudette Colbert, Poppea, Charles Laughton, Nerone. Forse è la versione originale, non censurata, con la «scandalosa» Claudette che s’immerge nuda in una vasca colma di vero latte d’asina.
Nella sua formazione intellettuale, Sciascia, studente a Caltanissetta, vede un film al giorno, a volte anche due. Ogni anno riempie un libretto di annotazioni su quelli visti: «Avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta anni dopo, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa». Ama i noir francesi degli anni 30, il realismo poetico di Jean Rénoir e Marcel Carné; film come La grande illusione (è tra il suoi preferiti), L’angelo del male, Alba tragica, Il porto delle nebbie: storie dove emerge la fatalità del destino umano in un contesto di ingiustizie e di emarginazione rappresentato spesso da eroi solitari e maledetti, come quelli interpretati da Jean Gabin.
L’amico di sempre, il poeta Stefano Vilardo, ricorda che da ragazzi, Sciascia e lui maturano l’idea di fare cinema, e non solo come spettatori. Aspirazione, che tale resta. Sciascia partecipa alla sceneggiatura di Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini nel 1971; per il resto, rifiuta di intervenire nella sceneggiatura dei tanti film ricavati dalle sue opere: teorizza l’indipendenza delle sue opere dai film ricavati: anche se il cinema ha sempre grande attenzione per la sua opera, lui teorizza che film e letteratura sono mondi separati, di difficile comunicazione.
I primi registi a cimentarsi con il mondo sciasciano sono Elio Petri (A ciascuno il suo, 1967) e Damiano Damiani (Il giorno della civetta, 1968): entrambi con sfondo la mafia siciliana. Nel 1976 è la volta di Cadaveri eccellenti, ispirato da Il contesto; il filone mafioso scivola sul giallo fantapolitico. È lo stesso anno di Todo modo, ancora di Petri. Una filmografia che va da Grand Hotel des Palmes di Memè Perlini (liberamente tratto da Atti relativi alla morte di Raymond Roussel) a Candido di Roberto Guicciardini; da Porte aperte di Gianni Amelio, a Il consiglio d’Egitto e Una storia semplice, di Emidio Greco.
Il cinema non si interessa a Sciascia solo per i temi trattati. È anche questione di forma: per Rosi raccontando «fatti» Sciascia si preoccupa di analizzarli: «Cerca di mettere in relazione cause ed effetti: questo appartiene molto al linguaggio cinematografico». Lo stesso Sciascia dichiara: «I miei libri sono già sceneggiature. Nei miei anni giovanili sono stato uno spettatore appassionato: la tecnica del cinema ha influito molto su quella del racconto scritto». Italo Calvino, editor per Einaudi, dopo aver letto il manoscritto del Giorno della civetta, gli scrive: «Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più».
Il nipote Fabrizio Catalano, autore e regista teatrale, racconta che il nonno è tentato dalla proposta di Sergio Leone: scrivere insieme il copione di C’era una volta in America. Qualcosa però non ingrana. Sciascia e Leone si incontrano a Palermo. Leone ha modi bruschi che non garbano a Sciascia; lo scrittore Vincenzo Consolo, presente all’incontro, racconta che Sciascia si fa scuro in volto, praticamente non apre bocca, appena può, si congeda. Chissà cosa ne sarebbe potuto venir fuori se i due si fossero intesi. E chissà a che risultati si sarebbe approdati, se Sciascia avesse sceneggiato, come gli propone il regista Enzo Muzii, I sotterranei del Vaticano, di André Gide.
C’è una quantità di aneddoti gustosi, storie, informazioni in Sciascia e il cinema, la bella conversazione tra il nipote Fabrizio Catalano e Vincenzo Aronica. Fabrizio è regista, drammaturgo, scrittore. Aronica, «complice» e amico da dieci e più anni organizza eventi culturali sempre nell’ambito della cinematografia. Non mancano gli episodi surreali. Per esempio quello che racconta il regista Roberto Andò. A Cinecittà, un giorno, Sciascia va a trovare Federico Fellini. Sciascia deve andare in bagno. In quel locale c’è anche il regista Ingmar Bergman. Racconta Andò: «Bergman parla in inglese, lingua che Sciascia non conosce, per cui si limita a sorridere. Mi sono sempre immaginato questa scena: Bergman e Sciascia che non possono comunicare, ma che si ritrovano a contatto d’occhi mentre stanno facendo pipì! Una scena sublime, inimmaginabile…».
Il volume è un prezioso peregrinare tra ricordi e riflessioni, analisi critica e ritratti dal vivo. Un assaggio di quello che aspetta il lettore di questa lunga e bella conversazione, è in due frasi. La prima di Antoine de Saint-Exupéry, Sciascia la sceglie per presentare per una mostra di scrittori: «Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza». La seconda citazione è di Sciascia: «Le immagini bisogna saperle leggere, uno dei guai del nostro tempo, e forse il più grande, è di essersi votato alle immagini, dimenticando la lettura».