Corriere della Sera, 26 maggio 2021
La leggenda di Armando Picchi
«Aveva le spalle talmente larghe che sembrava facessero alzare la maglia», ricorda Massimo Moratti che lo definisce «il perno della Grande Inter». Lui, Armando Picchi, scomparso 50 anni fa ancora trentacinquenne per un anomalo tumore alla costola sinistra, è stato uno dei meravigliosi difensori della storia del calcio italiano, il vero allenatore dell’Inter d’oro degli anni Sessanta. Quello titolare, Helenio Herrera, il Mago, era un motivatore rivoluzionario ma come stratega in campo si affidava volentieri a Picchi, livornese ruvido dalla sublime intelligenza calcistica (e non solo), dotato del superpotere di leggere le azioni in anticipo. Giocava in un ruolo che oggi non esiste più, il libero, regista arretrato che dettava tempi e chiusure ai suoi leggendari compagni di reparto, Burgnich, Facchetti e Guarneri, ma era anche la cerniera per quel centrocampo irripetibile presidiato da Suarez e Corso. Quando arrivò dalla Spal nel 1960 era un terzino, bravo ma come tanti. Fu proprio Herrera a intuirne le potenzialità di leader e a cucirgli addosso quella mansione cruciale e l’Inter si trasformò nella Grande Inter. Picchi da capitano collezionò 3 scudetti (1963, 1965 e 1966), 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali (1964 e 1965): indimenticabili le istantanee che lo immortalano con il trofeo alzato al cielo dopo le «guerriglie» contro gli argentini dell’Independiente. Il rapporto con Herrera negli anni diventò sempre più ispido: il Mago era addirittura geloso di quel giocatore che aveva ormai preso per mano la squadra e che, tutto sommato, non aveva una grande considerazione del tecnico argentino. Così quando Herrera pose l’aut aut al presidente Angelo Moratti, nel 1967 Picchi andò a ultimare la carriera al Varese, sancendo di fatto il tramonto della favolosa stagione nerazzurra. Dopo essere stato estromesso colpevolmente da Mondino Fabbri nella spedizione del Mondiale 1966 in Inghilterra (quello fallimentare della Corea), Picchi venne reintegrato in Nazionale da Ferruccio Valcareggi e nel 1968 fu titolare fisso agli Europei, che poi l’Italia vincerà. Il 6 aprile gli azzurri giocarono a Sofia contro la Bulgaria l’andata dei quarti di finale con: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Bercellino, Picchi, Domenghini, Juliano, Mazzola, Rivera, Prati. Al 24’ del primo tempo un’entrata del bulgaro Yakimov provocò la rovinosa caduta di Picchi: frattura del bacino e commozione cerebrale. Allora non erano contemplate sostituzioni e per non lasciare la squadra in dieci, Picchi rientrò in condizioni pietose per occupare il ruolo di ala statica. Proprio quell’infortunio, e l’inadeguata cura, sarebbe la plausibile causa della precoce scomparsa di Picchi, come da convinzione del fratello dottore farmacista Leo. Da allenatore in campo ad allenatore in panchina: dopo aver guidato il «suo» Livorno, nel 1970, a 35 anni diventò tecnico della Juventus, il più giovane della serie A. Svezzò campioni futuri come Anastasi, Bettega, Capello e Causio, soprattutto creò una nuova impostazione di gioco, solida e spettacolare insieme. Il 27 dicembre 1970 si presentò a San Siro – in giacca come se fosse primavera per esorcizzare il suo montante dolore alla schiena – contro la sua Inter da allenatore della Juve e lo stadio intero gli tributò un interminabile applauso. I nerazzurri di Giovanni Invernizzi vinsero 2-0 (gol di Corso e Boninsegna) e avviarono la rincorsa che li porterà alla conquista dell’undicesimo scudetto. Ma l’Armandino, come da sempre veniva chiamato dagli amici livornesi, non riuscirà nemmeno a completare la stagione: non aveva ancora compiuto 36 anni quando fu costretto al ritiro, cedendo la panchina juventina al cecoslovacco Cestmir Vycpalek. Le condizioni di Picchi si aggravarono rapidamente, fino alla morte avvenuta a Sanremo il 26 maggio 1971, nello sconforto non solo di Inter, Juve, Varese e Livorno – che nel 1990 gli ha dedicato lo stadio dell’Ardenza – ma del mondo del calcio al gran completo. E a mezzo secolo da quella data resta ancora il ricordo di una leggenda senza tempo.