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 2021  maggio 26 Mercoledì calendario

I sudditi assolutisti

Fallita la «rivoluzione» del 1848, il Regno delle Due Sicilie conobbe un grande movimento populista, reazionario e legittimista dalle caratteristiche assai particolari. Il 28 marzo 1850, «Il Tempo» – quotidiano liberale fondato a Napoli nella primavera del 1848, divenuto poi filoborbonico – pubblicò una strana notizia. Riferiva che, secondo non meglio precisati «periodici italiani» (il riferimento era a giornali piemontesi), in molte parti nel Mezzogiorno venivano sottoscritte «petizioni contro la Costituzione». L’adesione a tali petizioni, a detta dei «periodici italiani», sarebbe stata imposta da impiegati e funzionari pubblici che, se non si fossero attivati in tal senso, sarebbero stati «licenziati». Nonché dall’esercito «colla forza delle baionette». I giornalisti del «Tempo» andarono a verificare questo fenomeno. Dal momento che «la forza armata non era venuta all’ufficio del nostro giornale per imporci di sottoscrivere tali petizioni», spiegava l’articolista del «Tempo», «abbiamo dovuto indagare quanto vi fosse di vero o di falso». E aveva scoperto, il quotidiano, che effettivamente quelle petizioni esistevano ed erano anche assai numerose. Ma nessuno aveva imposto di firmarle. Si trattava, invece, di un movimento spontaneo. Quelle che si leggevano sui «fogli liberali di Torino» altro non erano che calunnie contro il governo di Ferdinando II, che «non ha destituito o fatto violenza a nissuno». Anzi, «Il Tempo» parlava di «alti funzionari i quali si erano astenuti dall’apporre il lor nome a quelle petizioni» ed erano rimasti al loro posto. A esempio i giudici della Gran corte di giustizia. Chi aveva ragione, i «periodici italiani» o «Il Tempo»?
Partiamo dai dati di fatto: il fenomeno effettivamente ci fu. Tra il 1849 e il 1850 il Regno delle Due Sicilie, tornato saldamente nelle mani di Ferdinando II, conobbe un movimento di ampie dimensioni che chiedeva al sovrano di revocare la Costituzione concessa nel 1848. Il modello erano le grandi petizioni di massa come la britannica del 1842 e quelle francesi e tedesca di alcuni anni più tardi. Quelle petizioni però avevano come minimo comun denominatore d’esser state sottoscritte al fine di ottenere un’estensione dei diritti di cittadinanza. Quella del Regno delle Due Sicilie, invece, mirava «a un ritorno all’indietro del tempo». Ovvero aveva come obiettivo «il riapprodo alla stagione prerivoluzionaria della monarchia assoluta e della sudditanza» all’insegna di due slogan: «viva il re» e «abbasso il parlamento».
Fino ad oggi questo movimento è stato assai poco studiato ed è stato sostanzialmente liquidato come una montatura propagandistica della corte borbonica. Ma forse – spiega Marco Meriggi in La nazione populista. Il Mezzogiorno e i Borboni dal 1848 all’Unità, pubblicato dal Mulino – le cose non stanno esattamente così. In realtà, scrive Meriggi, si trattò di «una grande onda di mobilitazione del Mezzogiorno postquarantottesco» che «prese forma sotto un segno politico esattamente antitetico a quello che aveva contraddistinto i plebisciti italiani del 1848 e che avrebbe caratterizzato in seguito quelli del 1860». Una mobilitazione che non manifestava l’auspicio «di un rovesciamento dell’ordine assolutistico antecedente», bensì «il suo ripristino». E il «contestuale rifiuto di una libertà intesa come ingannevole chimera». Ma con modalità particolari, «moderne», destinate a lasciare un segno duraturo.
Tutto ha inizio nell’estate del 1849, quando l’esercito borbonico riconquista definitivamente la Sicilia e a Napoli si insedia un governo presieduto da Giustino Fortunato (prozio del grande meridionalista a cui Benedetto Croce nel 1914, in segno di stima, dedicherà Cultura e vita morale). Il Fortunato del 1849, scrive Meriggi, «aveva voltato da tempo le spalle agli ideali liberali coltivati in gioventù» e, «una volta impadronitosi del timone del governo», aveva immediatamente «assecondato e inasprito la svolta repressiva già in atto». Repressione attuata con l’aiuto di uno spietato capo della polizia, Gaetano Peccheneda.
Ferdinando II aveva da farsi perdonare la stagione delle incertezze precedente alla concessione della Costituzione. Nel 1847 – come ha notato Ruggero Moscati in Ferdinando II di Borbone nei documenti diplomatici austriaci (Esi) – il plenipotenziario austriaco Felix principe di Schwarzenberg spinse il re a congedare «ministri che svalorizzavano e facevano odiare il potere». Il monarca prima resistette, poi diede seguito alle indicazioni del principe austriaco licenziando due ministri: Nicola Santangelo (Interno) e Ferdinando Ferri (Finanze). Ma era tardi. E quando, nel gennaio del 1848, iniziarono le proteste, concesse precipitosamente la Costituzione. Prima che ciò accadesse, il 27 gennaio Schwarzenberg avvertì il cancelliere dell’impero asburgico Metternich: «La partita è perduta perché la si è abbandonata; oramai l’unica incertezza è sul giorno in cui la Costituzione sarà proclamata». Poi aggiunse: «Il re e il suo ministero hanno completamente perduto la testa». In calce alla lettera di Schwarzenberg, Metternich annotò i suoi dubbi circa la possibilità che il Borbone avesse potuto «perdere la testa che non aveva». Ferdinando II – pur non essendo a conoscenza della sprezzante reazione del cancelliere austriaco – si vergognò sia dei ritardi nella liquidazione dei ministri impopolari, sia di aver ceduto concedendo la Costituzione in modo così precipitoso. 

Talché su quel discorso della Costituzione, anche quando fu di nuovo saldamente in sella, non tornava volentieri. Secondo Giacinto De Sivo – che scrisse a ridosso dei fatti la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 (Edizioni Grimaldi) – nel biennio 1849-50 qualcuno spontaneamente cominciò a battere le province continentali del regno e «a sussurrare dell’opportunità di chiedersi l’abolizione dello Statuto». I primi a mobilitarsi per le «sottoscrizioni anticostituzionali» furono Giovanni Sbordone, un capopopolo dell’Avellinese, e Innocenzo Corbi, un legittimista di Avezzano. Quella scintilla, sostiene De Sivo, «bastò». La gente, «stracca di politica», «volea riposare»; «nauseata de’ frutti costituzionali correa volenterosissima» a firmare dichiarazioni collettive nelle quali si chiedeva l’abolizione della Costituzione e il ripristino della monarchia assoluta. Per assecondare un desiderio del monarca? No. Ferdinando II – che nel 1848 aveva giurato sullo Statuto – adesso si limitava a voler disattendere la Costituzione (almeno in parte) ma non desiderava esser costretto a tornare pubblicamente sui suoi passi. Perciò gradì quell’iniziativa fino a un certo punto. Non gli piaceva affatto la prospettiva di dover riconoscere al cospetto delle corti europee che lui aveva ceduto, primo nella penisola, ai rivoluzionari. E che adesso era il primo a dover fare dietrofront.
Del resto questa iniziativa era molto particolare: formulava «un’ardita e quasi sfrontata rimostranza» nei confronti di una «decisione avventata» presa dal sovrano. Gli indirizzi, infatti, «esaltavano sì la bontà della monarchia di diritto divino», ma lo facevano «mettendo in luce anche l’umana e contingente debolezza mostrata di recente dal suo rappresentante pro tempore nel regno meridionale nel momento in cui aveva accordato la Costituzione». I rilievi al monarca erano quasi espliciti. In qualche modo i sottoscrittori apponevano la firma alle petizioni da «cittadini» che contestano al Borbone il «cedimento» dell’anno precedente. 
È perciò improbabile che – come scrisse quarantacinque anni dopo Raffaele De Cesare in La fine di un regno (Longanesi) – quelle petizioni fossero riconducibili «a una martellante opera di propaganda e di coercizione» ispirata da Giustino Fortunato. È pensabile invece, ipotizza Meriggi, che la ricostruzione di De Cesare si affidasse essenzialmente «a testimonianze orali successive», raccolte tra i superstiti patrioti liberali, i quali avevano naturalmente tutto l’interesse a «bonificare retrospettivamente la propria immagine». «Bonificare» da cosa? Dal sospetto – e in qualche caso dalle prove – di una loro partecipazione al movimento delle petizioni anticostituzionali. Di conseguenza dopo il 1860 presentarono l’iniziativa come «ufficialmente promossa da parte delle autorità» e con pesanti sanzioni nei confronti di coloro che si fossero rifiutati di aderire. Il che ne spiegherebbe il carattere di massa. Le masse che firmarono le petizioni del 1849-50 – secondo queste ricostruzioni – sarebbero state «costrette» a sottoscriverle.

La prova di questa «costrizione» sarebbe individuabile in quel che era accaduto nella Sicilia riconquistata dal generale Carlo Filangieri principe di Satriano. Il principe costrinse il parlamento palermitano (che nell’aprile del 1848 aveva votato la decadenza della dinastia borbonica dal trono siciliano) a manifestare pubblicamente il proprio «pentimento». Nell’estate del 1849, Filangieri pretese da deputati e pari di quell’assemblea che si sottoponessero a un rito di sottomissione. Accettarono di «pentirsi» 103 deputati su 202, 81 pari su 160. Gli altri nel frattempo erano fuggiti. Ma quella espressa dall’isola fu, secondo Meriggi, «un’incondizionata preghiera di puro e semplice perdono». Mentre, invece, «nel Mezzogiorno al di qua del Faro gli indirizzi anticostituzionali elaborarono un discorso decisamente più complesso e ambivalente». I soggetti della mobilitazione anticostituzionale del 1849-50 «invadevano di fatto un terreno dal quale la logica di antico regime li avrebbe in passato senz’altro esclusi». E «sperimentavano una sfera di comunicazione che … apparteneva comunque al tempo della modernità». Anche la reazione alla rivoluzione, «se esercitata nella forma dell’attivismo militante di gente comune», spiega Meriggi, «era da considerare qualcosa di moderno».

Tale fenomeno non si presentava affatto come «l’applicazione della famosa ricetta proposta dal capofila del pensiero reazionario europeo, Joseph de Maistre». In che senso? De Maistre aveva teorizzato la controrivoluzione come «contrario di rivoluzione», ovvero come una cosa «contraddistinta dal rifiuto tout court della politica». Politica che veniva identificata con «la prassi dei rivoluzionari». Quella della campagna anticostituzionale delle Due Sicilie si presentava, invece, come una «rivoluzione al contrario», dal momento che prendeva corpo con «l’ardita appropriazione del terreno incandescente della politica (e della modernità) da parte del mondo reazionario». Ovvero si realizzava «nell’utilizzo e nel riadattamento legittimista di una forma di attivismo politico originariamente di matrice liberale-progressista». 
Qualcosa del genere era stato intravisto dagli storici che pure sono stati ipercritici nei confronti della stagione finale del regno borbonico: autori come Harold Acton in Gli ultimi Borboni di Napoli (Giunti) e Giuseppe Campolieti in Il Re Bomba. Ferdinando II, il Borbone di Napoli che per primo lottò contro l’unità d’Italia (Mondadori). Ma era rimasto sullo sfondo.
Forse qualcosa di più preciso – in merito alla monarchia populista di Ferdinando II – lo aveva individuato Angelantonio Spagnoletti nella Storia del Regno delle Due Sicilie (Mulino) laddove aveva messo in evidenza l’esibizione pubblica di una «regalità ammantata di patriottismo». Ma il discorso anticostituzionale del 1849-50, scrive Meriggi, non «tematizzava affatto un’eventuale ripresa dell’alleanza tra aristocrazia e corona in funzione antirivoluzionaria». Anzi, quando si trovò occasionalmente ad «evocare la componente aristocratica della società», questa mobilitazione fu propensa «a criticarla piuttosto che a tesserne l’encomio». 
Gli ultimi re Borbone non vollero comunque saperne di accogliere la richiesta delle petizioni. La Costituzione restò formalmente in vigore. Dal foglio ufficiale del regno, che a partire dal febbraio 1848 aveva come testata «Giornale costituzionale delle Due Sicilie», venne soppresso l’aggettivo «costituzionale». Fu poi modificata la formula di giuramento dei funzionari pubblici eliminando, anche qui, ogni riferimento alla Costituzione. E questo fu tutto.