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 2021  maggio 25 Martedì calendario

In Europa nessuno blocca i licenziamenti come noi

er trovare qualcosa di vagamente simile allo stop prolungato dei licenziamenti, che agita il dibattito politico-sindacale, bisogna guardare alla Spagna. Ma con una differenza sostanziale. Il blocco italiano è assoluto e riguarda tutti i licenziamenti per motivi economici, mentre a Madrid la normativa (La prohibición de despido, legge del 27 marzo 2020) è stata modulata e sono stati vietati i licenziamenti giustificati dalla pandemia, lasciando comunque la possibilità di procedere ad allontanamenti economici non connessi all’emergenza. Inoltre, la Spagna ha introdotto un meccanismo a tempo (la cui efficacia scadrà comunque il 30 settembre) che tutela i lavoratori rispetto all’attivazione di procedure di riduzione o sospensione del lavoro.
Il divieto vale sino a sei mesi dalla riammissione in servizio del primo dipendente coinvolto nella procedura, connettendo la protezione dei lavoratori all’uso degli ammortizzatori sociali: in caso di loro utilizzo il datore di lavoro si vincola a non licenziare per un tempo definito.
Nel resto d’Europa dischi rossi ai licenziamenti non ce ne sono. In Germania è prevista invece una cassa integrazione che copre tra il 60 e il 67% dello stipendio netto per le ore ridotte. In Olanda il governo scoraggia i licenziamenti offrendo sussidi a chi ne possiede i requisiti (ad esempio perdita del fatturato del 20% per 4 mesi) rimborsando parte degli stipendi dei lavoratori. Naturalmente il sussidio decade se il dipendente viene poi licenziato.
I PARACADUTE
Nel Regno Unito, dove non vige alcun divieto di licenziamento, a marzo è stato introdotto il Furlough, una sorta di periodo di aspettativa non retribuita del lavoratore che riceve un sussidio dallo Stato. Anche in Francia non ci sono divieti specifici, ma i datori di lavoro che ricevono contributi statali non possono fondare un licenziamento esclusivamente su ragioni legate all’emergenza, altrimenti sono costretti a restituire i contributi. In generale, il governo ha lasciato alle parti sociali mani libere nel negoziare accordi collettivi per la modifica dei termini del rapporto di lavoro in cambio dell’impegno a non licenziare. Il risultato è che, in base ai dati di Pôle Emploi, il servizio pubblico per l’impiego, non si vede alcun aumento dei licenziamenti tra febbraio e giugno 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. Anzi, i licenziamenti non economici sono addirittura scesi. Anche nel Regno Unito, l’aumento dei licenziamenti rispetto agli stessi mesi degli anni precedenti è relativamente limitato. Si è passati da un tasso di licenziamenti del 3,6 per mille nell’aprile 2019 al 4,1 per mille nello stesso mese del 2020, dal 3,8 per mille del maggio 2019 al 4,8 per mille del maggio 2020. Nulla a che vedere con la crescita registrata nel 2008 durante la crisi finanziaria: dopo il fallimento della Lehman Brothers, a ottobre 2008, il tasso di licenziamenti era schizzato all’8,9 per mille dal 4,9 per mille dell’ottobre 2007, per poi salire ulteriormente nei mesi successivi.
EMERGENZA DONNA
Le statistiche fanno pensare al fatto che, piuttosto che bloccare i licenziamenti per tutti, sarebbe stato meglio agire per proteggere alcuni settori sociali. A cominciare dall’emergenza di genere. Basti pensare solo ai dati relativi all’occupazione femminile diffusi dai Consulenti del lavoro a marzo 2021: nel periodo aprile-settembre 2020 l’Italia ha registrato una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media Europea. A fronte di un calo del 4,1% delle lavoratrici italiane tra i 15 e 64 anni (402 mila in meno), in Europa il numero delle occupate nella stessa fascia d’età è diminuito del 2,1 per cento.