Corriere della Sera, 24 maggio 2021
Su “Opere. II” di Claudio Magris (“I Meridiani” Mondadori)
I libri di Claudio Magris possono essere letti come i capitoli di un unico grande testo dove le parole identità, frontiera, storia, etica, viaggio, si rincorrono e dialogano oltre i tradizionali generi letterari.
Con la pubblicazione del secondo volume dei Meridiani, questa peculiarità che i critici e i lettori più attenti conoscono, appare in tutta la sua evidenza. È, in sintesi, quella «identità plurale» di cui parla efficacemente la curatrice dell’opera Ernestina Pellegrini, a cui si devono anche i ricchi apparati informativi e bibliografici che accompagnano i testi, costruiti attraverso la consultazione del grande archivio personale dell’autore.
Magris è lo scrittore dei grandi, architettonici romanzi capaci di affrescare il secolo breve con i bagliori cupi delle guerre e degli orrori che lo hanno marchiato, ma anche con i colori sfumati delle esistenze che lo hanno attraversato; è il fotografo delle «istantanee», delle «visioni» e dei «ritagli», osservatore implacabile e sensibile di piccoli eventi quotidiani che fulminano in poche righe una visione del mondo, un comune sentire o lo spirito del tempo; è il narratore dei confini nel senso che quelle frontiere — geografiche o di scrittura — le attraversa con la leggerezza di chi non teme digressioni, soste, deviazioni improvvise.
Questo secondo tomo dei Meridiani raccoglie i volumi apparsi tra il 1997 e il 2020, libri diversi per genere e ampiezza, da Microcosmi a Croce del Sud, passando per i due grandi romanzi, Alla cieca e Non luogo a procedere. Ci sono i testi teatrali La mostra, Essere già stati, e le «Autoantologie», cioè articoli, saggi letterari e racconti scelti dall’autore da volumi che abbracciano un arco di quattro decenni: Itaca e oltre, L’anello di Clarisse, Utopia e disincanto, L’infinito viaggiare, La storia non è finita, Alfabeti, Livelli di guardia, Istantanee, Tempo curvo a Krems. Una progressione che bene illustra la capacità di Magris di attraversare luoghi reali e immaginari, di inseguire destini marginali, di calarsi nelle vite vere, stravaganti o tragiche, che fanno capolino dalle grandi narrazioni unificanti. Vicende in cui si imbatte per caso o perché le va a cercare, nella consapevolezza, come disse in un’intervista del 1997 a Paolo Di Stefano, «che un solo granello della realtà che viene raccontata è comunque più grande di quel che si scrive».
Il saggista convive con il narratore, con il viaggiatore, con l’editorialista, con il germanista: il suo metodo di lavoro d’altronde è sistematico, collaudato. Lui stesso lo ha raccontato, lo si desume leggendo gli articoli sul «Corriere» e poi i libri, lo riassume bene Ernestina Pellegrini: «Una volta messa a fuoco un’idea, una storia, un personaggio, lo scrittore parte per un lavoro di ricerca e di scavo che può durare anni o anche decenni». Intanto però il tema che gli sta a cuore, il personaggio a cui dà una caccia discreta , il luogo che lo affascina o ossessiona, si incarna provvisoriamente in articoli o racconti, «migra da un libro a un saggio, ricompare in vesti diverse, si accresce, si precisa, muta, scompare, finché in un’ultima, rapinosa stesura, assume la fisionomia dell’opera definitiva».
Non è un caso che lo stesso tratto caratterizzi Microcosmi che apre questo Meridiano e Croce del Sud che lo chiude. Il primo, di impronta e spirito mitteleuropei, è nato da un viaggio dell’agosto 1991 in mondi piccoli, minimi appunto, che non hanno niente a che vedere con il particolarismo delle «piccole patrie», anzi «sono il contrario di ogni indifferente minimalismo perché in essi balena il grande, il significativo, il senso irripetibile di ogni esistenza»; l’ultimo chiude un cerchio ideale, anche geograficamente, avvicinando la Mitteleuropa della vita e dello studio alla Patagonia della suggestione letteraria, dove lo scrittore è approdato seguendo le tracce di «tre vite improbabili» incontrate in brevi versi poetici, in letture bizzarre derivate da lunghe ricerche bibliografiche e d’archivio, esito di curiosità coltivate nel tempo.
L’attrazione per ciò che appare incredibile pur appartenendo alla vita vera (Magris ama citare Mark Twain: «Truth is stranger than fiction»; la verità è più bizzarra della finzione) informa tutta l’opera dello scrittore, saldandosi con i grandi eventi. È cio che lo porta a voler raccontare quei «randagi della storia» su cui sventolano le bandiere lacerate delle rivoluzioni tradite in Alla cieca, romanzo che cuce i molti fili fino ad allora sparsi negli altri libri, nato dall’interesse per quei duemila operai italiani provenienti da Monfalcone e dalla Bassa friulana che, nel 1947, fanno un esodo al contrario (rispetto ai 300 mila circa che se ne vanno dalla Dalmazia per venire in Italia) e decidono di trasferirsi in Jugoslavia, alcuni dei quali finiscono nei gulag di Sveti Grgur e Goli Otok, le isole destinate a ospitare gli oppositori al regime di Tito. Sono loro che gli ispirano Salvatore Cippico, figura che si mescola al «re galeotto» Jorgen Jorgensen, avventuriero e imbroglione che fondò città e si autoproclamò re di Islanda, finendo per essere condannato ai lavori forzati in Tasmania.
Così il protagonista (uno dei protagonisti) di Non luogo a procedere, romanzo che parte dalle infamie legate alla Risiera di San Sabba a Trieste, dove, durante la Seconda guerra mondiale, fu installato l’unico forno crematorio esistente in Italia, è liberamente ispirato al professore Diego de Henriquez, «un triestino di vasta cultura e accanita passione», che si dedicò tutta la vita a raccogliere armi e materiale bellico di ogni genere per costruire un originale, debordante Museo della Guerra che potesse servire alle ragioni della pace.
Le sorti neglette di uomini più o meno illustri prendono la scena anche in quella Drammaturgia del Disagio, come l’ha definita Guido Davico Bonino, che emerge dalle opere teatrali di Magris. Monologhi, libri «bonsai» dove, scrive Ernestina Pellegrini, si realizza il «miracolo della miniaturizzazione». Sono figure strettamente legate, per sua stessa ammissione, a una «scrittura selvaggia, meno analitica, meno ideologica, più vitale» rispetto a quella saggistica. La si nota bene in La Mostra, testo in cui l’autoannientamento del pittore austriaco Vito Timmel, morto nel 1949 nel manicomio di San Giovanni a Trieste, è raccontato attraverso le parole dei compagni di osteria, degli amici, dei suoi stessi taccuini: «Io sono un punto, io è un punto. Un punto non ha estensione, non c’è, non è niente...». È lì, come nei romanzi, che Magris riversa quelle che chiama le sue «verità detestabili», quelle affidate alla «scrittura notturna», per citare l’amico Ernesto Sábato, l’ispirazione che fa parlare i mostri della notte, l’eros, la follia, la devastazione. Scrivere inventando diventa così un «raccogliere schegge di cose fatte a pezzi con l’ascia», senza che questo viaggio negli abissi profondi dell’umano precluda a Magris di costruire in parallelo un controcanto saggistico governato dalla «scrittura diurna» attraverso cui, come lui stesso ha spiegato, esprime ciò che consapevolmente pensa, ama, giudica, insomma quella natura morale, intellettuale, sistematica che comunque gli appartiene.
Questo secondo Meridiano le contiene entrambe, al loro massimo livello; prive di sovrastrutture ideologiche; modellate intorno a una pietas ferma, non intaccata dal disincanto, nemmeno quello, doloroso, indotto dal tempo che passa; filtrate attraverso le parole degli autori e dei libri amati. Nella convinzione che la letteratura serva per decifrare la vita e la vita per comprendere la letteratura. D’altronde, come ha detto l’amico Mario Vargas Llosa facendogli gli auguri per il suo ottantesimo compleanno, nell’aprile 2019, «la letteratura è un vizio sano che mantiene i suoi cultori in buona forma e lucidi».