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 2021  maggio 24 Lunedì calendario

Nei villaggi degli operai

La geografia del lavoro racconta chi siamo. Ora ci connettiamo da casa, abbiamo abbandonato il pendolarismo, gli uffici e stiamo cercando di pensare a nuove forme di co-working per non isolarci troppo, con spazi comuni di lavoro all’interno dei condomini di nuova costruzione.
Un tempo invece – sembra strano pensarci adesso – c’erano i villaggi operai che riunivano casa, lavoro e tempo libero tutto in uno, in micro città ideali iper organizzate e protette. Un «feudalesimo lavorativo» inimmaginabile ora, testimonianza di imprenditori che erano al tempo stesso protettori dei loro dipendenti e controllori del loro stile di vita. Un esempio su tutti: Crespi d’Adda, provincia di Bergamo. «È uno scrigno architettonico – racconta Ivana Pais, professoressa associata di Sociologia economica nella facoltà di Economia dell’università Cattolica – un capolavoro urbanistico e racconta molto bene il ruolo che aveva l’imprenditore: da un lato proteggeva i suoi operai con abitazioni dignitose e servizi per le loro famiglie, dall’altro ne controllava perfino l’assunzione di alcolici nel tempo libero, con un razionamento delle consumazioni che oggi sarebbe impensabile».
I villaggi operai, nati per lo più a cavallo tra Ottocento e Novecento, sono sopravvissuti fino agli anni Cinquanta. Molti sono stati poi riconvertiti (o le case sono state cedute agli eredi degli ex operai) e sono ancora intatti, spesso meta dei turisti.
«Raccontano di un’epoca in cui l’impresa era estremamente radicata sul territorio – continua la sociologa Pais – e rispecchiavano una gerarchia sociale molto rigida: gli operai avevano un certo tipo di abitazione, i capi un altro. Idem nei cimiteri: anche l’architettura tombale testimonia una netta gerarchia. Oggi invece si è ridisegnato tutto: la casa di una persona o il suo abbigliamento non per forza rispecchiano la sua posizione professionale e il suo stato economico. Ora è tutto più fluido. La prospettiva si è rovesciata e siamo più individualisti». I villaggi si sono evoluti, ognuno ha creato una sua struttura unica. Se Crespi d’Adda, patrimonio dell’Unesco, viene citato come esempio di architettura, altri agglomerati non hanno dato altrettanta dignità a operai e lavoratori. Gli stili delle case tutte uguali, in fila, degli orari comuni, della socialità controllata davano l’idea di quello che è stato teorizzato da Robert Owen come socialismo utopico, cioè una comunità fondata sulla collaborazione e la fratellanza. Un modello sociale impraticabile se non in una comunità di un migliaio di persone, ma più affascinante nella teoria che nella pratica. Quello che è certo è che per i padroni era molto più produttivo concentrare le loro squadre in una micro città. E per un po’ di anni è sembrata la soluzione migliore per i cotonifici del nord Italia, i lanifici, le aziende siderurgiche. Gli agglomerati si sono perfino evoluti nel tempo: se all’inizio del secolo erano composti da casette «a misura» e hanno dato alle famiglie la possibilità di abbandonare le campagne, successivamente hanno seguito gli stili architettonici e imposto un nuovo cambiamento sociale, di sicuro più alienante. Basti pensare ai palazzoni anonimi di Mirafiori a Torino, il villaggio Fiat, o all’esperimento di Adriano Olivetti.


Il capolavoro di architettura
specchio delle gerarchie
Oggi è patrimonio Unesco
È una città giardino, splendida e tuttora meta di visite guidate e gite scolastiche. Racconta di gerarchie, controllo sociale e protezione al tempo stesso. Il villaggio di Crespi d’Adda, provincia di Bergamo, è la straordinaria storia di una città ideale del lavoro, un piccolo feudo dove il castello del padrone era simbolo sia dell’autorità che della benevolenza, verso i lavoratori e le loro famiglie. Non a caso il centro nasce nel pieno della rivoluzione industriale, ed è la risposta degli imprenditori illuminati di fine Ottocento ai drammi causati dalla prima, violenta industrializzazione.
Crespi è un oggi patrimonio dell’Unesco, ed è tuttora abitato. Gli inquilini delle case sono per lo più i discendenti dei lavoratori originari della storica fabbrica tessile. Una comunità orgogliosa del proprio passato e disponibile nel raccontarlo ai numerosi turisti in visita. L’Unesco dichiara che «Crespi costituisce esempio eminente di insediamento umano rappresentativo di una cultura, specialmente se divenuto vulnerabile per l’impatto di cambiamenti irreversibili».
Il villaggio viene costruito dal 1876 al 1877 da Cristoforo Benigno Crespi che sceglie l’area, vicina al fiume Adda, per costruire il suo cotonificio. I lavori di costruzione vengono affidati all’architetto Ernesto Pirovano e all’ingegnere Pietro Brunati. Il villaggio è poi stato portato avanti dal figlio di Cristoforo, Silvio Crespi.
La micro città, oltre alle casette delle famiglie operaie (complete di giardino e orto) e alle ville per i dirigenti (che vennero costruite in seguito), ha la sua chiesa, copia in scala ridotta del santuario di Santa Maria di Busto Arsizio - città d’origine di Crespi - scuola, cimitero, ospedale proprio davanti alla fabbrica, campo sportivo, teatro, stazione dei pompieri e di altre strutture comunitarie.
Il villaggio rimane di proprietà di un’unica azienda fino agli anni Settanta, quando diversi edifici, soprattutto residenziali, vengono venduti ad altri privati. L’attività industriale è in calo e a poco a poco l’area si spopola. Nel 2013 il complesso dell’ex cotonificio viene acquistato dall’imprenditore Antonio Percassi, imprenditore di grossi marchi, presidente dell’Atalanta e al 36esimo posto tra le persone più ricche d’Italia nella classifica di Forbes del 2020. La sua intenzione è utilizzare le case come quartier generale delle sue aziende .


La tragedia della miniera della Ribolla, dove la sirena
suonava ogni otto ore
Nulla a che vedere con l’eleganza di Crespi d’Adda, il villaggio attorno alla miniera di Ribolla, a Roccastrada in provincia di Grosseto, racconta di una vita dura, semplice e purtroppo di una tragedia che, nel 1954, provoca la morte di 43 persone. Costruzioni grigie, asettiche, a tratti alienanti, sono la prova di una agglomerato voluto più per esigenze di praticità lavorativa (l’estrazione della lignite) che per aggregare la comunità di operai. «Agli inizi degli anni Cinquanta - scrive bene Erino Pippi, presidente della cooperativa Unione Ribolla - nel piccolo Villaggio minerario di Ribolla tutto apparteneva alla società Montecatini. Erano di sua proprietà le case, le strade, l’acquedotto, la chiesa, l’ambulatorio, il dopolavoro, la scuola, la squadra di calcio e naturalmente la miniera. Erano di sua proprietà, nel senso che risultavano al suo esclusivo servizio, anche il medico di fabbrica, il maresciallo dei Carabinieri ed il parroco. I minatori, che non volevano essere compresi nell’elenco delle cose possedute della società, erano in perenne conflitto con i padroni della miniera».
Le poche abitazioni del villaggio, dove abitavano i minatori e le loro famiglie, vengono ricavate usando le vecchie costruzioni ed i capannoni che la società mineraria non utilizza più. Costruzioni basse, appiattite: due stanze, camera e cucina, senza gabinetto che, quando c’è, è collocato all’esterno in condominio fra due o più famiglie, spesso numerose. Famiglie povere, ma dignitose, umili e fiere che, tra un’abitazione e l’altra, coltivano piccoli orti da cui ricavare patate, pomodori e insalata. La vita è scandita dal suono delle sirene, ogni otto ore, per annunciare il cambio turno in miniera: alle 7 del mattino, alle 15, alle 23. Poi l’incidente che spazza via tutto. Il 4 maggio 1954 Ribolla viene devastata da un’esplosione di gas, il grisù accumulatosi per la scarsa ventilazione in una galleria a 260 metri di profondità, che non permette il ricambio dell’aria: muoiono in 43 nella sezione «Camorra Sud» della miniera di lignite. I funerali mobilitano 50mila persone. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decide la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiede ben cinque anni. Di quell’episodio rimangono alcuni resti della miniera e il Monumento al minatore di Vittorio Basaglia. La vicenda è estesamente raccontata da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma, pubblicato nel 1956 e richiamata nel romanzo di Bianciardi La vita agra (e quindi nel film di Carlo Lizzani, tratto dal romanzo).

Il quartiere Leumann
diventa il set per ambientare
le storie di Nick Hornby
Dietro ai cancelli e all’ingresso fiabesco del villaggio di Collegno alle porte di Torino, c’è il progetto visionario di Napoleone Leumann, imprenditore di origine svizzera. Tanto che quando muore, il suo necrologio recita: «Due erano gli ideali a cui indirizzò in particolar modo la sua opera: il benessere fisico e morale dei suoi dipendenti e l’educazione e l’istruzione dei loro figli. Per ottenere il primo era necessario pensare a migliorare le condizioni igieniche».
Il magnate del tessile trasferisce la sua azienda a Torino approfittando delle agevolazioni fiscali e degli sconti che la città decide di concedere sui terreni. E da lì nasce l’avventura della cittadella, conclusa agli inizi del Novecento dall’ingegner Pietro Fenoglio. Ci abitano un migliaio di persone tra operai, impiegati e relative famiglie: in tutto si snoda in 60 villini e 120 alloggi, ciascuno provvisto sin dal principio di servizi igienici e un giardino condiviso al piano terreno.
Attorno alle abitazioni vengono gradualmente realizzati anche gli edifici necessari ad una piccola comunità: la scuola elementare, la palestra, i bagni pubblici, una chiesa, una cooperativa alimentare, una piccola stazione ferroviaria, un albergo e il Convitto delle Giovani Operaie. Inoltre, all’interno dello stabilimento ci sono la mensa ma anche un ambulatorio, un asilo nido, un ufficio postale e un circolo sportivo.
Pur essendo di religione calvinista, Napoleone Leumann vuole dotare il villaggio di una chiesa, dedicata a Sant’Elisabetta, ed è una delle pochissime chiese al mondo, forse l’unica, realizzate in stile Liberty . Il villaggio è ancora abitato da alcuni ex dipendenti del cotonificio Leumann e, complessivamente, da circa un centinaio di famiglie. Recentemente è stata recuperata parte della cancellata metallica che un tempo circondava l’intero stabilimento, ma che fu requisita dal governo fascista durante la seconda guerra mondiale. Nel 2019 sono anche cominciati i lavori per il prolungamento della metropolitana di Torino. Il villaggio è anche finito sul grande schermo perchè è stato il set del film «È nata una star?» diretto da Lucio Pellegrini e tratto dal racconto di Nick Hornby.

Olivetti e il sogno di costruire
la fabbrica a misura d’uomo
(senza cadere nel marxismo)
Anche la famiglia Olivetti a Ivrea cade nella tentazione di costruire un villaggio ideale per i propri dipendenti e cerca di realizzare l’utopia della fabbrica a misura d’uomo. Lo fa con un criterio più moderno ma con qualche accortezza in più rispetto allo stile asettico portato dal cemento armato. Nel 1926 Camillo Olivetti fa costruire un primo gruppo di case per dipendenti: sei nuclei unifamiliari con un piccolo giardino di pertinenza. Poi viene edificata Talponia, un edificio realizzato tra il 1969 e il 1975 e progettato dagli architetti Roberto Gabetti e Aimaro Isola. Costruito su due livelli con una particolare pianta semicircolare, presenta un interessante rapporto architettura-natura, con gli alloggi che sono affacciati verso il bosco. L’ultimo livello è costituito come un terrazzo giardino, migliorandone anche la coibenza termica, ed è attraversato da una passeggiata pedonale.
Dietro al progetto di Olivetti c’è il pensiero del filosofo Jacques Maritain che mette la centralità della persona e la democrazia in contrapposizione al totalitarismo tecnologico che tende invece all’individualismo, alla massificazione.
Il senso della comunità diventa quindi il perno per scardinare le storture sociali dell’individualismo capitalista e, allo stesso tempo, del collettivismo marxista. Per questo diventa fondamentale dare agli operai (e ai dirigenti) la possibilità di vivere in un ambiente con tutti i servizi utili ai loro figli e alle loro famiglie, metterli nella condizione di stare bene per lavorare bene. Nel villaggio vengono quindi progettati sia spazi privati, per lo più seguendo i canoni di un razionalismo architettonico che si rivela meno poetico rispetto a Crespi d’Adda, e creati spazi comuni: dalla mensa agli asili, dal centro sociale per i ritrovi del post lavoro alla biblioteca.
In tempo di guerra, nel 1943, con la costruzione di un fabbricato di 3 piani da 15 alloggi, l’Olivetti avvia i lavori per il quartiere di Canton Vesco a Ivrea. Seguono, tra il 1943 e il 1954, altri sette fabbricati, tutti direttamente finanziati dalla Olivetti. È il primo cantiere aperto dall’Olivetti con i contributi finanziari di Ina-Casa. In seguito, per il completamento delle abitazioni in quest’area l’Olivetti ricorrerà anche all’Istituto autonomo case popolari di Torino, fornendo comunque gratuitamente il progetto e l’assistenza tecnica. Il quartiere di Canton Vesco, tipicamente britannico, diventa semi-autonomo.