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 2021  maggio 24 Lunedì calendario

Intervista all’ad di Campari Bob Kunze-Concewitz

Abbiamo resistito a una doppia pandemia: quella del virus e quella del durissimo attacco informatico dello scorso novembre. Considero quasi un miracolo aver chiuso il 2020 limitando al 4% il calo dei ricavi. Quest’anno siamo partiti bene, abbiamo raccolto i frutti dell’esperienza fatta», dice Bob Kunze-Concewitz, amministratore delegato del gruppo Campari. Il gigante internazionale degli «spirits» nel primo trimestre ha realizzato vendite nette da 397,9 milioni in crescita del 12,1% rispetto a un anno prima, con un utile pretasse rettificato da 64,1 milioni, in rialzo dell’84,7%.
Cosa avete cambiato, rispetto allo scorso anno per ripartire?
«Siamo più flessibili di quanto non lo fossimo un anno fa, quando la pandemia ci ha colti di sorpresa. Abbiamo imparato a modulare il modello di business a seconda dell’andamento del virus. Ora siamo molto reattivi».
Anche agli attacchi hacker?
«È successo una domenica mattina. C’era un flusso anomalo di dati dai server italiani verso Zurigo: nel giro di un’ora e mezza abbiamo spento tutto nel mondo. Per un mese non abbiamo avuto modo di usare i processi informativi in azienda».
Un tuffo negli Anni 50.
«Abbiamo fatto tutto a mano: dalla registrazione degli ordini alla pianificazione in fabbrica, alle fatture. Tutta la documentazione e l’organizzazione. Ma ce l’abbiamo fatta, abbiamo recuperato».
Cosa avete fatto per evitare che accada di nuovo?
«Abbiamo investito tanto in cybersecurity. In precedenza avevamo messo al sicuro in cloud, sulla nuvola informatica, i nostri sistemi di Erp per la gestione dei processi, che infatti abbiamo ritrovato intatti. Ora abbiamo tutto in cloud con sistemi di autenticazione per la sicurezza ancora più potenti».
Secondo lei le imprese italiane sottovalutano il rischio informatico?
«Sì, il problema è che pochi ne parlano quando vengono attaccati. Noi lo abbiamo fatto perché la trasparenza, da azienda quotata, fa parte dei nostri valori. Nella prima settimana dopo il fatto ho ricevuto una quindicina di telefonate da amici amministratori delegati di altre aziende che chiedevano consigli».
Torniamo al business. Come vede quest’anno per i vostri superalcolici?
«Toccando legno, me lo aspetto positivo. Le campagne vaccinali stanno avendo effetto. Negli Stati Uniti, il nostro mercato più importante, il 90% dell’on-premise – locali, bar, ristoranti – ha riaperto. Le persone escono e consumano tanto. Credo che durerà. Dopo la Grande Guerra ci furono i «Roaring Twenties», ci sono le premesse perché siano ruggenti anche gli attuali Anni 20. C’è un altro aspetto, però».
Quale?
«Durante i vari lockdown molte persone hanno infranto una barriera psicologica, imparando a farsi i cocktail a casa. Questo ci potrà dare ulteriore spinta così come l’e-commerce».
Un canale che finora ha coinvolto poco il vostro settore.
«Sì, ma in un anno siamo passati da zero al 2% delle vendite. Per imparare il mestiere abbiamo acquistato il 49% di Tannico, che ora aiutiamo a espandersi in Francia. Il nostro e-commerce cresce a tre cifre in Usa e Nord Europa, a due cifre in Italia».
Ora avete deciso di puntare sull’alto di gamma. Perché?
«All’interno dei nostri 50 marchi c’è un gruppo di prodotti premium. Penso a brand come Grand Marnier, Wild Turkey, Glen Grant. Vogliamo valorizzarli e espanderci nel segmento. Consideri gli Usa. Nei primi quatto mesi mentre i prodotti value decrescono dello 0,6%, quelli premium avanzano del 7,7%, i super-premium del 9,7%».
L’Italia produce eccellenze ma non riesce mai a creare veri poli del lusso. Come se lo spiega?
«In Italia il focus si concentra sul volume più che sul valore. L’esempio è il prosecco, in Francia hanno lo champagne».
Proseguirete nella campagna di acquisizioni?
«Sì, sono una opportunità. In Campari abbiamo costruito un apparato in grado di gestire un fatturato molto più grande di quello attuale. Puntiamo a marchi premium con un’attenzione particolare a Stati Uniti e Asia».
Campari proseguirà con lo smart working, una volta finita la pandemia?
«Proseguiremo con il lavoro agile in cui i camparisti dovranno però passare il 60% del tempo in azienda».
Il "tutti a casa" non funziona?
«L’home working funziona se tutti si conoscono e c’è fiducia. In un’azienda, mediamente, c’è un 7% di turnover all’anno. Se tutto si svolgesse da remoto, in cinque anni metà delle persone sarebbero sconosciuti visti solo su zoom. Dal vivo poi si sviluppano idee, leadership, i problemi si risolvono meglio».
A Piazza Affari c’è un’ondata di delisting. È una buona idea uscire dalla Borsa?
«No. Essere in Borsa ha per noi un valore tremendo. Implica mantenere disciplina e governance di livello. Dà visibilità all’azienda, attrae talenti. La Borsa poi ci ha dato un risultato importante, dal 2001 la capitalizzazione è salita da 900 milioni a 11, 5 miliardi. Siamo l’industria che ha dato il ritorno globale più elevato agli azionisti, mediamente il 15% l’anno».