La Stampa, 24 maggio 2021
Biografia di Thomas Sankara
Li conosciamo questi signori, i colonialisti e i loro complici africani. Stanno nei palazzi presidenziali o negli hotel di lusso, e fumano e bevono the e parlano di tangenti, di affari, e degli intrighi della cooperazione e della guerra al terrorismo, ogni giorno, ogni anno, dal tempo delle indipendenze finte come moneta falsa. Non vanno nei mercati, nei villaggi, il puzzo li stordisce, le mosche li assalgono, il sudiciume e la polvere sporcano loro le scarpe di lusso. È un mondo ottuso e miserabile con i suoi notabili, i suoi profittatori, i suoi parassiti, che si nutre di bugie, retorica, avidità e del sangue degli africani che devono lavorare per loro, portare denaro e riverenze, e morire di stenti e di kalashnikov.
Questi presidenti, questi uomini di affari, questi monsieur della Francafrique, sudicia mistura di diplomazia segreta, contratti sporchi e faccende di ‘’barbe finte’’, di agenti segreti, sono delle talpe affamate a cui non interessa nulla se non una primitiva avidità appoggiata a sofismi grossolani, «la fratellanza con gli amici africani», «il mercato che porta sviluppo» eccetera.
L’orizzonte di questi Paesi è breve e chiuso nonostante gli spazi immensi dei deserti e delle savane: gli africani, i sudditi, come gli asini, i dromedari e le capre fanno da sfondo, animali da fatica, pazienti e sporchi, formiche senza nome. E questo mondo di privilegio, insieme, lo difendono con la violenza e la astuzia elementare degli animali.
A causa del permanere di questa teppaglia Thomas Sankara, il rivoluzionario, il capitano burkinabè che voleva tagliare le spese dello stato per costruire ospedali, pozzi per l’acqua, scuole, trentadue anni dopo il suo assassinio è ancora un simbolo per la giovinezza africana sempre alla insoddisfatta ricerca di un riscatto e della dignità.
Se andate a Ouagadougou capitale dell’Alto Volta francese che lui ribattezzò Burkina Faso, il «Paese degli uomini integri», un posto dai giorni secchi e incandescenti come braci, trovate le magliette, gli adesivi con l’inconfondibile basco rosso, l’espressione tenera e pensosa, gli occhi scuri e ardenti. Ma quella è paccottiglia, un povero culto consumistico che lo fa assomigliare al Che Guevara. Entrambi sono stati uccisi alla stessa età, 37 anni.
C’è in questa tenace memoria qualcosa di molto più profondo ed insieme elementare, quell’esigenza fondamentale di giustizia che sola muove l’animo dei poveri, dei dannati della terra e che non è un enunciato moralistico, ma significa la possibilità di vivere ogni giorno senza essere taglieggiati, calpestati e oppressi. Sankara salì al potere (e fu insieme golpe e insurrezione popolare) in un Paese in cui la mortalità infantile era del 180 per mille, la speranza di vita non superava i quarant’anni, l’analfabetismo toccava il 98%. Con le «vaccinazioni-commando» mise al riparo due milioni e mezzo di bambini da meningite, febbre gialla e vaiolo, tagliò l’analfabetismo, favorì l’ecologia e la emancipazione delle donne, restituì a un Paese balbuziente la dignità della indipendenza. Era un patriota, rifiutava i prestiti del Fondo monetario e dalla Banca mondiale ma anche le forniture interessate dell’Unione sovietica. Soprattutto era onesto in un continente di cleptocrati e buffoni sanguinari. Non aveva con sé il kit del perfetto tiranno africano, ovvero la manipolazione etnica, il complesso del complotto, la privatizzazione della mangiatoia per la famiglia e il clan. Non ricevette altra ricompensa che una vita sempre più solitaria e una morte abbandonata.
Lo ammazzò un commando di congiurati in uniforme, su ordine del suo miglior amico e compagno di lotta, Blaise Campaoré, che lo sostituì al potere diventando obbediente fantoccio degli ordini di Parigi e delle strategie liberiste della finanza internazionale. Lo seppellirono sotto pochi centimetri di sabbia, frettolosamente, nel cimitero di Dagnoen; gli assassini avevano paura anche del suo fantasma. L’autopsia constatò un corpo straziato da raffiche di pallottole, anche sotto le ascelle: perché lo abbatterono mentre aveva le braccia alzate.
A Ouagadougou è iniziato il processo ad alcuni dei suoi assassini, 34 anni dopo il delitto. Sono gli esecutori. Il capo della congiura fratricida, Campaorè, cacciato da una rivolta popolare, vive tranquillo in Costa d’Avorio dove ha ottenuto la cittadinanza. La Costa d’Avorio il cui presidente di allora Houphouet-Boigny fu un regista del complotto, con la Francia di Chirac.
Da mesi in Burkina Faso, in Niger e in Mali folle scendono in strada scandendo slogan: «Basta con il genocidio francese», «abbasso la Francia», «barkhane, togliti dai piedi» con riferimento all’operazione militare di Parigi contro i jihadisti saheliani (a cui si affiancherà anche una sciagurata presenza militare italiana), percepita ormai come una inutile forza di occupazione. Sono slogan che discendono dalla battaglia di Sankara contro l’imperialismo: «un popolo cosciente – diceva – non affiderà mai la propria difesa ad altri per quanto efficienti siano. I popoli coscienti difendono da soli la loro patria».
All’Africa orfana di quasi tutti padri delle indipendenze rivelatisi spesso solo degli egocrati e aspiranti tiranni, sono rimasti in fondo solo due eroi, Mandela e Sankara. Eroi e non partiti o ideologie: troppo razionali, troppo possibili, troppo legati a un mondo ordinato, questi, per fare presa sulle menti di una gioventù che non conosce lavoro regolare e considera giustamente ogni ordine stabilito come nemico.
Per loro ci vuole un simbolo, o meglio un martire che campeggi come compenso alle mitologie insufficienti, a età dell’oro che non son mai esistite, che consenta di evadere dal senso umiliante della propria impotenza. Sankara proprio perché la sua leggenda è stata bruscamente interrotta dal delitto, è l’immagine di un capovolgimento in cui possono diventare, per miracolo, sì per miracolo, liberi e padroni del proprio destino.La fortuna dei giovani eroi è in fondo quella di morire giovani, prima che la realtà si impaludi nella delusione, i sogni sfioriscano nel compromesso, nel tradimento, nella banalità.
C’erano anche nella democrazia diretta di Sankara, che voleva andare svelto con la rivoluzione, le scuciture di pericolose involuzioni autoritarie, la tentazione di saltare le tappe, gli eccessi di autorità contro i renitenti al nuovo a tutti i costi. I funzionari, eterno mammut dell’immobilismo africano, a cui erano stati tagliati gli stipendi per finanziare progetti di sviluppo, la piccola borghesia mugugnava, puntava i piedi, si era formata nell’esercito e nel potere clan e camarille in cui i golpisti hanno trovato appoggi e giustificazioni.
Sì, la rivoluzione era stanca. Eppure è di rivoluzionari come Sankara, e non di carità o modelli importati, che ha bisogno l’Africa di oggi.