La Stampa, 24 maggio 2021
Io, bambino su quella funivia
Ogni bambino che sale su una funivia è apparentemente felice, segretamente terrorizzato. O viceversa. Mischia quei due stati d’animo e il prevalente affiora sulla superficie, nell’espressione del viso. È contento perché va, insieme con i genitori e la famiglia, verso il cielo, affronta una prova, circondato dall’affetto e dal conforto che cercano di infondergli una sicurezza contrastata dalla sua breve esperienza di vita. Che cosa regge veramente quelle casse di metallo? Quali garanzie fornisce il cavo? Di che cosa è fatto? E soprattutto, perché quegli stessi adulti che gli ingiungono di stare lontano da ogni pericolo, anche immaginario, adesso lo stanno conducendo ad appendersi lassù? Evidentemente sanno cose che lui non sa. Calcoli di probabilità che dimostrano sia meno rischioso che attraversare la strada da solo, dati sulla manutenzione che hanno letto chissà dove. Per cui si fida, ma non sa davvero perché. Quel che sa è che deve dimostrarsi tranquillo, non esibire le emozioni, «fare il grande», schernire la mamma che magari un po’ di paura la manifesta. Il tragitto in funivia è una prova di maturità, se lo fai accompagnato. Una follia imperdonabile, lo facessi da solo.
È vedendo che tra i passeggeri della cabina precipitata c’erano anche due bambini che mi sono tornate in mente come un sapore perduto queste sensazioni. Non è impossibile entrare nella loro mente, perché l’abbiamo abitata, quasi tutti. Nel mio caso, a ricalco, proprio in quello stesso percorso. Il Lago Maggiore è un luogo segnato nella piccola mitologia familiare. Fu la destinazione del viaggio di nozze dei miei genitori, nel lontano 1959, niente di esotico rispetto alla partenza (Bologna), una meta compatibile con le economie del tempo, eppure fiabesca, raccontata poi con l’incanto dei nomi a cui si è legata la propria storia e arricchiti da un quarto di nobiltà: le isole Borromee, la rocca di Angera e quella vetta, il Mottarone. Fu la prima funivia della loro vita, ne parlarono per anni, mostrando fotografie in bianco e nero. Al punto che nel decimo anniversario delle nozze vollero tornarci, portando anche me. Per questo so esattamente come un bambino guarda la strada sospesa dal lago alla montagna: pensa che sta per vivere un incantesimo e quanto ne farebbe volentieri a meno. I ragazzini di oggi non sono quelli degli Anni Settanta: hanno già provato, se non tutto, molto. Se non dal vivo, in maniera virtuale. Infilano una cuffia e un visore e sono in volo sulle Ande con un bimotore o aggrappati a un deltaplano sul mare. Ogni città ha un parco divertimenti con le sue montagne russe o altri infernali termometri di audacia senza scopo. Tutte queste sono esperienze controllate, in un ambiente innaturale: la stanza o la rotaia all’interno di un luna park. Soltanto la natura trasmette il vero senso del rischio, soltanto la montagna ti guarda dall’alto in basso ricordandoti che violare la distanza può avere un prezzo. E così, per quante funivie o altri impianti di risalita abbiamo preso negli anni, c’è sempre un inevitabile nervosismo camuffato ad accompagnarci nell’ascesa. Cerchiamo sempre di stare nella posizione che guarda avanti, credendo di limitare l’effetto del dislivello.
Figurarci i più piccoli. Entrano schiamazzando per coprire la voce della paura. Se tacciono è perché stanno cercando un passaporto mentale per l’altrove. Su quel primo impianto della mia vita ho, come avrei fatto in situazioni analoghe molte volte in seguito, composto formazioni di calcio i cui giocatori avevano la stessa iniziale. È lo stesso espediente che ho usato, l’ultima volta, durante una risonanza magnetica. C’è qualcosa di simile: sei chiuso in un contenitore, rinunci al controllo di quel che ti accade, aspetti finisca. E qualcosa di profondamente diverso: non sei solo.
Un bambino in funivia cerca la mano del genitore più affidabile o l’apposito sostegno. Lascia una piccola traccia di sudore nell’una o nell’altro, ma stacca con pudore quando se ne accorge. Rileva come un minuscolo sismografo le reazioni altrui. Si rincuora per le battute di spirito, ma ancor più per le banalità che proseguono da terra, come se si fosse in autobus. Guarda davanti. Ricordo di aver evitato il richiamo del lago, che pure durante la salita deve mostrarsi splendido, con quelle tre isolette al centro, tre cuori che si riducono e scompaiono, ma non smettono di pulsare. Quel che cambia, inesorabile, è l’andatura in prossimità del pilone. Lo conosciamo tutti quel suono, quel momento sospeso in cui viene naturale sobbalzare, trattenere il respiro, stringere i denti o provare una risatina forzata. È una sorta di contrattempo concordato, uno scarto simulato del destino, dopo il quale tutto riprende. Per quante volte l’abbiamo vissuto, però, ogni volta abbiamo quella reazione. Per un bambino non ci sono possibili paragoni con il passato, con gli intoppi superati, i falsi arresti. Tutto è decisivo, l’intera esistenza è una inspiegabile fatalità che si regge su men che la forza dell’acciaio. A cinque e ancora a nove anni (tanti ne avevano quei bambini) la vita assomiglia a un gioco di cui non sono ancora state consegnate le istruzioni per l’uso. Le tengono i grandi, ma già sorge il sospetto che non abbiano capito granché, forse mancava la loro lingua. Occhi sempre avanti, come è stato consigliato, si vede già l’approdo, il cavo sembra teso, le rotelle lo agganciano, il gioco appare montato come si deve e quel rumore non è, non può essere, niente. Siamo felici, abbiamo scampato un male maggiore, si possono nuovamente festeggiare i matrimoni, programmare i viaggi di nozze, trasportando le nostre piccole esistenze da un luogo all’altro per provare qualche forma di meraviglia e mostrarla in seguito con orgoglio ai bambini, per dividerla con loro, perché non resti un lontano privilegio. Lo impareranno soltanto più avanti, che la vita è appesa a un filo.