Specchio, 23 maggio 2021
Ritratto di Leo Castelli
«Vissi d’arte», mi rispose Leo Castelli, quando gli chiesi come avrebbe voluto esser ricordato, ma nella sua citazione della Tosca non c’era nulla di malinconico, semmai l’orgoglio per aver contribuito in maniera determinante a rivoluzionare l’arte mondiale nella seconda metà del ’900. Aveva accettato di partecipare al documentario che stavo preparando sulla cultura ebraica americana, chiedendo come condizione di intervistarlo nella sua galleria di Soho. Era il 1986, e, soprattutto grazie a lui, il quartiere era diventato in quegli anni il centro dell’arte contemporanea della metropoli, ma Castelli era consapevole che una delle caratteristiche di New York è l’essere in perenne movimento: «È uno degli elementi di forza della città: nel giro di pochi anni il baricentro si sposterà - mi spiegò - e anche questa zona, che fino a pochi anni fa era considerata quasi degradata, diventerà alla moda». Basterebbe questa battuta per mostrare come avesse uno straordinario intuito non solo in campo artistico: nel decennio successivo il mondo dell’arte si è spostato a Chelsea, mentre Soho è diventato un quartiere con boutique, ristoranti e alberghi di lusso.
Colto, elegante e seducente, è difficile immaginare un personaggio più newyorkese di Leo Castelli, eppure era italiano e profondamente radicato nella cultura europea. Era nato con il nome di Leo Krausz a Trieste nel 1907, quando la città era ancora parte dell’impero austro-ungarico. Il cognome con cui lo conosciamo era della madre, una ricca ereditiera che aveva sposato il padre Ernest, ebreo ungherese: il cambio avvenne a metà degli Anni Trenta a seguito della disposizione mussoliniana di italianizzare i propri nomi. Per accontentare il padre si laureò in giurisprudenza a Milano, e poi lavorò come assicuratore in Romania, dove si innamorò di Ileana Schapira, che sposò: scoprirono di essere entrambi appassionati d’arte, e durante il viaggio di nozze acquistarono un acquarello di Matisse. Fu Ileana a incoraggiarlo e a seguire la propria passione, e a finanziare, grazie ai soldi di famiglia, l’apertura della prima galleria, che debuttò nel 1939 a Place Vendôme a Parigi. Le prime mostre celebrarono la pittura surrealista, e la galleria divenne un punto di riferimento della cultura europea fin quando, allo scoppio della guerra, i due coniugi furono costretti a fuggire in America. La fuga è degna di un film d’avventura, con tappe rocambolesche a Marrakesh, Tangeri, Algeciras, Vigo e persino all’Avana, prima dell’approdo nel 1941 a New York, dove Leo volle visitare immediatamente il MoMA.
Si arruolò quindi come volontario nell’esercito americano, lavorando nell’intelligence in Europa e poi anche come interprete. «Mi sentivo fino in fondo europeo - mi raccontò - ma provavo un senso di gratitudine per questo Paese che aveva accolto me e tantissime altre persone che avevano perso tutto: l’America è innanzitutto una promessa».
Fu in cambio di questi servigi che ottenne la cittadinanza americana, ma in quegli anni, per sopravvivere, si mise a lavorare nell’industria di abiti del suocero. La passione dell’arte era però irrefrenabile, e nel 1949 entrò a far parte insieme ad Ileana del Club, il circolo esclusivo che riuniva artisti quali Willem de Kooning e Franz Kline. Due anni dopo organizzò il rivoluzionario Ninth Street Show che ha consacrato il lavoro degli espressionisti astratti, nel quale volle inserire anche Robert Rauschenberg, all’epoca sconosciuto: «Ho deciso di includerlo, anche se all’epoca aveva poco a che fare con i canoni dell’Espressionismo Astratto: forse avevo intuito qualcosa che superava quel mondo che pure stavo celebrando e facendo scoprire». Insieme all’intuito, un altro elemento caratterizzante della sua personalità è stato infatti il coraggio con cui ha scommesso su artisti nei quali credeva e ripensando a quel periodo mi disse: «È sempre emozionante scoprire e celebrare un talento, specie nel caso di artisti che rivoluzionano il linguaggio». Ileana ne spiegava l’approccio con queste parole: «È da sempre più interessato in quello che deve fiorire, piuttosto che in quello che è già fiorito».
Aprì quindi la sua prima galleria all’angolo tra la Quinta Avenue e la 77ª strada, celebrando il lavoro di Wassily Kandinsky, Cy Twombly e Jackson Pollock. È il periodo in cui il suo nome diventò un punto di riferimento imprescindibile, e nel giro di poco tempo cominciò a rappresentare anche tutti gli altri grandi artisti dell’epoca, da Jasper Johns a Roy Lichtenstein: la Pop Art sarebbe inconcepibile senza il suo operato e, tra le opere che esibì per primo, ci fu anche un capolavoro come Campbell’s Soup Cans di Warhol, il quale lo immortalò anche in uno dei suoi più potenti ritratti.
Cominciò quindi a promuovere gli artisti americani in Europa, e si deve in gran parte al suo lavoro se Rauschenberg fu il primo statunitense a vincere il premio della Biennale di Venezia nel 1964. All’interno di una proposta artistica rivoluzionaria non si possono sottovalutare anche le innovazioni economiche, come quella di attribuire un salario mensile ai propri artisti: un modo abile per cementare il rapporto tra artista e mercante. La galleria nella quale lo intervistai venne aperta nel 1971: all’epoca Castelli aveva divorziato dalla moglie Ileana, la quale aveva sposato Michael Sonnabend, con cui aveva aperto una propria galleria nello stesso edificio. Riuscirono a mantenere buoni rapporti, nonostante Castelli abbia poi avuto altre due mogli: la francese Antoinette Fraissex du Bost, che aprì la Castelli Graphics, e l’italiana Barbara Bertozzi, storica dell’arte.
Ha continuato a lavorare con la stessa passione sino alla morte, avvenuta a 91 anni, e al memoriale funebre il figlio Jean-Cristophe concluse il suo intervento dicendo: «Invece di insegnarmi il baseball mio padre mi ha insegnato il Rinascimento italiano».