La Lettura, 23 maggio 2021
L’esame di Gillo Dorfles a Renzo Piano
Sono tanti e nei luoghi più diversi, gli incontri tra Gillo Dorfles e Renzo Piano, per amicizia profonda, per grande stima reciproca, per un’empatia personale che va al di là della biografia e della notorietà: per Gillo come per Renzo, prima vengono le persone, poi il ruolo che svolgono nella società.
Ho conosciuto Gillo nel 1966, era il mio professore di Estetica alla Statale di Milano; con lui mi sono laureato e da allora abbiamo lavorato insieme, curato mostre e girato il mondo, alla ricerca delle «bellezze quotidiane»,in primis l’architettura, disciplina alla quale Dorfles ha dedicato centinaia di scritti,fino dagli inizi degli anni Trenta. Per lavoro ho conosciuto direttamente Renzo Piano, in occasione del progetto della sua grande mostra, da lui allestita a Torino, dedicata ad Alexander Calder, nel 1983, ospitata nel Palazzo a Vela disegnato da Pier Luigi Nervi nel capoluogo piemontese. Ricordo la visita con Gillo, insieme al comune amico Franco Origoni che in questo lungo percorso è sempre stato presente, anche in relazione alla sua lunga collaborazione professionale con il Renzo Piano Building Workshop dagli anni Ottanta. Ricordo la prima sede del suo studio nel centro storico di Genova, dove incontrai per la prima volta Piano; ovviamente Dorfles aveva già visitato nell’anno dell’inaugurazione, 1977, il Beaubourg di Parigi.
Come ricorda lo stesso Piano, «mi viene in mente ora un Gillo che guardava con curiosità e attenzione il cantiere dell’Ircam, probabilmente su invito del comune amico Luciano Berio, direttore della divisione elettrico-acustica dell’istituto parigino, fondato e diretto dal compositore e direttore d’orchestra Pierre Boulez. La musica contemporanea è un altro linguaggio che ci accomuna; da parte mia per l’antica amicizia con Berio che Gillo ha sempre frequentato, molto prima di me, credo dalla nascita del famoso Studio di fonologia musicale presso la Rai di Milano fondato da Berio con Bruno Maderna. Ecco, la musica; io un dilettante,invece Gillo un pianista provetto. Lo ricordo,autunno 2006 durante un pranzo a casa con mia moglie Milly, te (chi scrive, ndr) e Franco Origoni, a Vesima, vicino a Genova, dove a un certo punto si mise al pianoforte a coda e improvvisò un brano, per provare se lo strumento fosse accordato! Con discrezione, ma sempre attento alla qualità delle cose che ha intorno; anche in quell’occasione, seduto sulla famosa poltrona Lounge Chair di Charles Eames».
Controllava tutto, Gillo, avendo vissuto come protagonista tutto il secolo. Gli sguardi e i silenzi di Gillo; la sintesi dell’analisi critica e l’attenzione ai particolari.
Nel mese di giugno 2005, fu organizzata una visita riservata a pochi amici, in occasione dell’inaugurazione del museo Klee a Berna. Andammo in auto da Milano,visitando prima a Basilea la Fondazione Beyeler dello stesso Piano, che Dorfles non aveva ancora visto (Gillo la considerava come uno dei suoi migliori progetti in assoluto), per poi – il giorno dopo – andare a Berna e insieme a Renzo e pochi altri amici a visitare il nuovo museo. Gillo era rimasto entusiasta dell’edificio di Basilea perché ogni spazio espositivo era pensato nel rispetto dei tempi e degli spazi di ciascun visitatore, il tutto all’interno di un «contesto normale»,come se le opere eccezionali, ad esempio le sculture di Alberto Giacometti e le Ninfee di Claude Monet, fossero ospitate in una casa privata.
«Dopo la visita, seduti uno di fronte all’altro, sullo sfondo il museo appena visitato insieme, chiedo a Gillo che cosa ne pensasse – racconta Piano – perché sapevo che Klee è da sempre per lui non solo un pittore, ma un profondo conoscitore dei processi che stanno alla base del nostro modo di vedere il mondo, i colori, i linguaggi della forma, la musica. Gillo è stato per circa quindici secondi silenzioso, una specie di secondo esame di maturità, poi con il suo garbo e le parole scandite lentamente: “Bel progetto Renzo, bella sala per conferenze e per concerti, straordinaria raccolta, ma credo che abbia bisogno ancora un po’ di tempo per diventare completamente un tuo progetto: l’erba intorno deve crescere, forse un po’ di piante...”». Renzo Piano: «Che cosa ho fatto il giorno dopo? Ho chiamato subito il responsabile del nuovo museo per chiedere di piantare alcuni alberi».
Ancora: «A Gillo chiedevo consigli, non soltanto perché c’era una stima reciproca, ma in quanto i suoi silenzi, come le sue osservazioni, erano sempre mirate al completamento del significato di un progetto, in architettura come nella relazione tra le arti contemporanee e il progetto». Per il Santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, realizzato nel 2004, Piano aveva pensato di coinvolgere una serie di artisti contemporanei, tra i quali Arnaldo Pomodoro, Roy Lichtenstein e Robert Rauschenberg, al quale aveva chiesto d’interpretare l’Apocalisse: il primo risultato fu un disegno su un cartoncino con alcuni schizzi e al centro, in scala, una navetta spaziale».
L’imbarazzo immediato da parte di Renzo non fu ovviamente per la qualità dell’opera, quanto per il probabile rifiuto da parte dell’autorità religiosa in relazione all’oggetto spaziale, una sorta di nuova divinità. Come poteva rispondere all’amico Bob senza avere l’autorevolezza del critico d’arte? «Pensai immediatamente a Gillo, tra altro amico d’antica data dell’artista americano in quanto era stato il curatore della sua prima mostra in Italia, alla fine degli anni Cinquanta. Era l’unico in grado di affrontare un tema così delicato».
La sua risposta fu sicura e geniale,come sempre: «Credo – disse Dorfles – che l’iconografia sacra debba mantenere un rispetto della figurazione ma anche della tradizione, proprio in relazione alla sua funzione di comunicazione religiosa. Perché allora, Renzo, non pensare a una grande riproduzione dell’opera di un maestro, un esempio,Il giudizio universale di Giotto nella Cappella degli Scrovegni? Oggi possiamo fare miracoli con le tecnologie nella replica di una grande opera come se fosse originale».
Tanto bastò a non farne niente.
«Un rivoluzionario vero, un’indicazione geniale che risolveva un problema di relazione e, dall’altro, offriva una possibile strada da percorrere», ricorda sorridendo ancora oggi Piano. «Prima o dopo ritroverò una fotografia che in un certo senso raccoglie sinteticamente le nostre vite ma anche le nostre comuni avventure intellettuali: 14 settembre 2007, in occasione del mio settantesimo compleanno, durante la mostra, ospitata alla Triennale di Milano, Le città visibili, fu organizzato un pranzo nel giardino del Palazzo per festeggiarmi. Qualche decina di amici, tra i quali, ovviamente Dorfles e Richards Rogers: al centro Gillo, ai due lati Richard e io,vecchi amici ma anche i responsabili di un gesto progettuale irriverente come il Beaubourg».
Richard Rogers, nato a Firenze, era stato influenzato dalla figura del grande architetto Ernesto Nathan Rogers, cugino del padre, ma soprattutto amico da sempre, perché tutt’e due triestini, di Gillo. Ricorda Renzo con una certa nostalgia: «Una sorta di padre putativo che con leggerezza, come se ci fosse un invisibile fil rouge, è sempre stato tra noi: in quella fotografia c’è un po’ la storia di quella particolare tradizione culturale italiana che è andata nel mondo, non dimenticando mai le sue origini. Da Trieste nel mondo, passando attraverso alcune tappe, lasciando qua e là le tracce di un pensiero aperto ed ecclettico. Oltre a essere nato anch’io come lui in una città di mare, Genova, dove Dorfles aveva vissuto da adolescente, qualcosa da Gillo ho cercato di imparare. Certamente la sua leggerezza e la curiosità verso gli altri, senza invidia».