La Lettura, 23 maggio 2021
La più antica sepoltura africana
Panga ya Saidi, sulla costa del Kenya una cinquantina di chilometri a nord di Mombasa, è una grotta frequentata ancora oggi per cerimonie tradizionali, sprofondata nella terra rossa di ferro che fu dei Masai. Qui è stato rinvenuto il fragile scheletro di un bambino di tre anni. Aveva le gambe rannicchiate sul petto, come se dormisse, coricato sul lato destro. Mani pietose hanno poggiato la sua testa su un supporto deperibile, che consumandosi ha lasciato un vuoto dentro il quale sono cadute le ossa dal collo in su. Il corpo era avvolto in un sudario, che è andato perso, ma ha lasciato i segni del suo abbraccio sullo scheletro.
Tutti questi dettagli indicano un insieme di comportamenti noto come sepoltura intenzionale: il bambino è stato deposto in una piccola fossa scavata per lui ed è stato subito ricoperto con i sedimenti circostanti, fatti di ocra e disseminati di frammenti di molluschi terrestri. Non è stato insomma abbandonato lontano dagli spazi abitati, per proteggerli dalla decomposizione e dall’arrivo di animali spazzini, ma è stato protetto dopo la sua morte. Non ci sono oggetti interrati per accompagnarlo nel viaggio né offerte o resti di fiori che si trovano in sepolture più elaborate, ma si tratta in ogni caso della prova di un complesso comportamento simbolico, di qualcosa di simile a un rituale.
La bellezza del ritrovamento basterebbe da sé, ma la datazione ha permesso agli scopritori – un team di ricercatori da 28 laboratori europei, americani e australiani, tra i quali l’archeologo italiano Francesco d’Errico che lavora all’Università di Bordeaux – di conquistare la copertina di «Nature». Il seppellimento è avvenuto infatti 78 mila anni fa circa: la più antica sepoltura mai rinvenuta in Africa di un essere umano come noi, peraltro con alcuni tratti arcaici nella dentatura.
La scoperta riapre il dibattito sulla evoluzione dell’intelligenza simbolica nella nostra specie. La manipolazione dei corpi e l’ammassamento dei cadaveri di membri del proprio gruppo in grotte e fessure sono comportamenti ipotizzati già in specie umane arcaiche, come Homo antecessor nella penisola iberica e Homo naledi in Sudafrica. In epoche più recenti, l’uomo di Neanderthal seppelliva i defunti intenzionalmente. Stranamente, i resti di sepolture antiche di Homo sapiens in Africa erano stati finora invece molto scarsi. Il bambino di Panga ya Saidi è la preziosa tessera di un puzzle che deve essere ancora in gran parte ricostruito. Un tempo si pensava che decisive innovazioni nel comportamento umano moderno – come dipingersi il corpo, abbellirlo con ornamenti, scolpire statuine, incidere oggetti con forme astratte, dipingere animali sulle pareti di roccia, inventare strumenti sempre nuovi e appunto predisporre sepolture rituali – fossero emerse in tempi recenti e in una sola popolazione di nostri antenati. Ora il quadro si va facendo più complesso. Indizi di quelle capacità simboliche si riscontrano anche in altre specie umane e all’interno della nostra sembrano comparire in regioni e in momenti diversi, fin dalle prime fasi della storia di Homo sapiens.
Le culture umane, ognuna con specificità proprie, sembrano cioè evolvere a mosaico fin dall’inizio, esplorando soluzioni differenti in varie ramificazioni regionali. La parola chiave è diversità. Nel cespuglio delle forme del genere Homo, ci sono stati molti modi di essere umani. Dentro la nostra specie, nata in Africa tra 200 e 300 mila anni fa, una moltitudine di culture ha tessuto i fili dell’umanità. Quell’umanità che si rivela nel gesto di accudire delicatamente un bambino anche quando gli si deve dire addio.