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 2021  maggio 23 Domenica calendario

Anche la scienza ha i suoi pregiudizi

Ci piace immaginare la scienza libera dalle discriminazioni. Imparziale, neutra. In realtà, al pari di qualsiasi altra attività umana, la scienza non opera mai in un «vuoto politico», anzi spesso riflette crudamente il clima che la circonda. 
Angela Saini è autrice di due saggi dal titolo speculare: Inferiori e Superiori, che illustrano fino a che punto le discipline scientifiche non siano affatto al riparo dai pregiudizi. I sottotitoli esprimono con precisione il senso delle sue ricerche: Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne, la nuova ricerca che sta riscrivendo la storia; Superiori. Il ritorno del mito della razza, le bugie della scienza sulla superiorità dell’uomo bianco. 
Discriminazioni di genere e discriminazioni razziali, quindi. Su questi argomenti i libri di Saini si presentano come un calibro necessario. La sua indagine ubbidisce a un metodo ferreo: prendere in esame tutte le posizioni scientifiche su una determinata questione e mettere in evidenza il confine tra ciò che è provato, o almeno largamente condiviso, e ciò che non lo è, resistendo alla lusinga continua dell’ideologia. Saini cerca i fatti, e laddove non ci sono lo evidenzia. Utilizza un metodo scientifico e al contempo giornalistico per praticare un esorcismo sulla scienza stessa, e liberarla dai preconcetti che non sa nemmeno di avere. 
«Mi sforzo di non escludere mai le persone – mi spiega via Skype da Londra —, semmai di condurle con gentilezza. Ricordando a ogni passo che anch’io sono partita nelle mie ricerche avendo molti di quei pregiudizi che intendevo smontare. Sono una giornalista, quindi non parlo mai dall’alto. Mentre imparo, voglio che chi legge impari con me». 

Com’è iniziata questa doppia indagine nella scienza, prima sui pregiudizi di genere poi su quelli razziali? 
«All’università ho studiato ingegneria. Ma in quegli anni mi sono fatta coinvolgere dalla politica studentesca e ho cominciato a scrivere articoli. Negli anni Novanta c’erano stati degli omicidi a sfondo razziale nella zona dove sono cresciuta, a Welling, nel sud-est di Londra. Lì si trovava il quartier generale del British National Party, all’epoca uno dei maggiori partiti nazionalisti in Gran Bretagna. È la ragione principale per cui mi sono lasciata coinvolgere dall’attivismo. Alla fine non sono diventata un’ingegnera, ma una giornalista. Ho lavorato per alcuni anni come reporter in tv, finché ho sentito la mancanza della scienza. Allora ho lasciato la Bbc e mi sono concentrata sulla scrittura». 
Giusto per iniziare con un pregiudizio di genere: a ingegneria non erano tutti maschi? 
«Spesso ero l’unica femmina in classe, sì. Eppure anche questa non è una legge universale. Mio padre è indiano e in India l’ingegneria è vista come una professione prestigiosa sia per i maschi che per le femmine. È uno dei motivi per cui la scelsi». 
L’India è in un momento buio. 
«Ho una grande parte della mia famiglia là, tra cui i genitori di mio marito. Ogni volta che chiamano ci informano di qualcuno che è morto. Ogni singola volta nell’ultimo mese. Non doveva andare così. Il mio primo libro (Geek Nation) raccontava del panorama scientifico in India. Dieci anni fa c’erano moltissimi investimenti nella ricerca e nella tecnologia (il sottotitolo era: Come la scienza indiana sta conquistando il mondo). L’industria dell’information technology indiana è una delle migliori, così come quella farmaceutica, per via della produzione dei generici. E il Serum Institute è tra i principali produttori di vaccini. Ma il governo attuale, religioso e nazionalista, è molto diverso da quello di Singh, che era primo ministro quando io facevo le ricerche. In molti ritengono questo un fallimento della politica. In più, si era diffuso quel falso ottimismo sull’immunità di gregge raggiunta. L’India è un Paese con grande circolazione di altre malattie, la tubercolosi, la malaria, e questo aumenta la tolleranza al rischio rispetto ad altri Paesi. No, non doveva per forza andare così». 
Hai origini per metà indiane, sei una donna e ti occupi di pregiudizi razziali e di genere. È facile dire: «Certo, le interessano perché la toccano da vicino».
«Il fatto che qualcuno possa guardarmi e pensare: “È ovvio che lei parli di questi problemi” non significa che non riguardino altrettanto i maschi bianchi. Li riguardano solo in modo diverso. Lo stesso vale per la pretesa di oggettività. Un bianco non è necessariamente più oggettivo di un non-bianco riguardo ai temi razziali. Il fatto che non sia una vittima di un determinato pensiero non esclude il fatto che viva all’interno di quello stesso pensiero e ne sia influenzato». 
Il pubblico dei tuoi libri è distribuito equamente? 
«Quando è uscito Inferiori andavo alle conferenze in Gran Bretagna, negli Stati Uniti o in Australia e nel pubblico trovavo una stragrande maggioranza di donne. Scienziate, soprattutto. Spesso qualcuna si lamentava del fatto che non ci fossero abbastanza maschi nell’uditorio. Poi, quando è uscito Superiori, ho fatto un talk a Londra e una scienziata, che aveva molto apprezzato Inferiori (il libro sul genere), mi ha detto: “Non so se questo lo leggerò, sono una donna bianca, non credo che possa essere rilevante per me”».
Quale ritieni più divisivo in questo momento, «Inferiori» o «Superiori»? 
«Succede qualcosa, come l’omicidio di George Floyd, e il dibattito pubblico viene saturato per un po’. La sfida, per gli attivisti, è di sfruttare al massimo l’impulso dato da quell’evento e di ottenere quanto più possibile finché l’attenzione è alta. Da quando ci sono i social, questi intervalli sono diventati brevissimi. Vogliamo subito il dibattito successivo, la novità. Che abbia a che fare con il genere, l’etnia, con le disabilità, con una qualche minoranza o magari con la pandemia». 

Oltre ad amplificare il rumore, riusciamo anche ad amplificare i cambiamenti?
«Sono diventata molto scettica sulla possibilità del cambiamento attraverso i social. Per questo ho lasciato Twitter un anno fa, e Facebook già da due anni. Mi sembrava che tutto l’impegno messo in quelle piattaforme avesse pochissimi effetti reali. Può darsi che io abbia modificato le opinioni di qualcuno attraverso i libri, forse è successo parlando a lungo in un evento pubblico, ma mai sui social. Sono strumenti studiati con altri scopi, principalmente per creare profitto. Nell’atmosfera di rabbia che costruiscono è molto difficile praticare qualcosa di diverso dall’attivismo “performativo”. Dove vedo i veri cambiamenti prodotti dal #MeToo o dal Black Lives Matter è dietro le quinte. Lavoro con alcune istituzioni scientifiche e dopo la morte di George Floyd ho visto in quante hanno aperto le porte all’autocritica, al dibattito interno sulla diversità degli staff, sulla metodologia stessa delle ricerche. Sono cambiamenti più silenziosi ma reali». 
Nei tuoi libri parli delle posizioni sessiste e/o razziste di scienziati del passato, alcuni eminenti come Darwin, Cuvier, Einstein. Come si colloca questo tipo di analisi retrospettiva nell’atmosfera attuale della Cancel Culture? 
«Ci ho riflettuto molto. E sono arrivata alla conclusione che l’errore è l’aver sempre celebrato gli individui. Quando raccontiamo la scienza solo attraverso le imprese degli “eroi”, spazziamo via le discussioni che accadevano intorno alle scoperte. Nel momento in cui Darwin affermava che le donne erano intellettualmente inferiori agli uomini, c’erano scontri di visione tra lui e i movimenti per i diritti femminili, scontri con scienziate e scienziati che non erano d’accordo. Questo è ciò che perdiamo quando ci concentriamo solo su Darwin. E la perdita del contesto ci lascia confusi. Bisognerebbe raccontare la storia della scienza attraverso i dibattiti e raccontare come quei dibattiti sopravvivono oggi. Per esempio, esiste ancora una discussione scientifica intorno all’eugenetica e a cosa significhi “perfezione umana”». 
«Perfezione umana», superiorità intellettiva della «razza bianca», differenze congenite tra i sessi, come la teoria empatia-sistematizzazione, che vorrebbe il cervello femminile predisposto all’empatia e quello maschile più tecnologico. La scienza non sembra liberarsi dall’ossessione di scovare una ragione evolutiva per le differenze che il nostro istinto ci suggerisce. 
«È il cuore della questione. Se riusciamo a rendere “naturali” le disuguaglianze, a fornire loro una base scientifica, abbiamo il pretesto politico perfetto per non modificare nulla. Il mondo è così perché è così. Fine. Rimane l’argomento più potente per giustificare tutte le ideologie. Perché, dopo settant’anni in cui abbiamo riconosciuto che la razza non è un concetto sensato, che non ci sono sottogruppi “naturali” di esseri umani, perché quell’idea è ancora lì, intatta, e viene espressa da almeno una persona in qualunque dibattito universitario? Non c’è nulla di più forte di una conferma scientifica all’idea che l’uguaglianza, tra i generi o tra le etnie, sia semplicemente impossibile». 
Spesso, fai vedere, non sono le risposte della scienza a essere pregiudiziali, ma le domande. Il modo in cui le questioni vengono poste e le ricerche portate avanti. Gli studi assumono in partenza, e in forme spesso difficili da rilevare, gli stessi preconcetti che a volte vorrebbero sfatare. È stato il caso, per esempio, dello Human Genome Diversity Project di un genetista illustre come Cavalli-Sforza.
«Non possiamo sottrarci completamente ai nostri pregiudizi. Possiamo solo riconoscerli. È uno dei motivi per cui la rappresentatività nella scienza è cruciale. Con punti di vista diversi presenti allo stesso tavolo, è più probabile che qualcuno chieda: “Ma avete considerato anche questo?”. Non a caso, l’aumento di rappresentatività femminile nella ricerca ha accompagnato la demolizione di una serie di falsi miti sessisti. Siamo tutti limitati, nella nostra immaginazione, dal contesto culturale in cui viviamo. Il binarismo, per esempio, era così radicato nella cultura e nella scienza occidentale, che quando negli anni Venti ci fu l’evidenza che i maschi avevano ormoni femminili e viceversa, gli scienziati fecero molta fatica ad accettarlo. Cozzava con la loro idea di mondo. In questo momento non sappiamo quali sono i nostri limiti, ma esistono e li riconosceremo fra un po’ di anni. Per questo la scienza ha sempre bisogno di una grande dose di umiltà». 
Ci sono anche problemi già visibili, però. Come il bisogno crescente di produrre risultati mediaticamente forti per ottenere i finanziamenti. E i pregiudizi, come sbandierare di aver trovato l’ennesima differenza fondamentale fra maschi e femmine, funzionano sempre molto bene. 
«C’è un portale, “Retraction Watch”, che visito tutti i giorni. Raccoglie gli articoli scientifici ritrattati, per i motivi più vari: perché contengono pochi dati, analisi scadenti o magari idee sessiste o razziste. È una buona finestra sui problemi “umani” della scienza. Occorre stare molto attenti. Se si continua a lasciare spazio a errori compiuti nei margini della ricerca scientifica, la fiducia delle persone nella scienza diminuirà. Significherebbe minare la fiducia nelle autorità e infine nella democrazia stessa». 
Le ricerche che hai fatto per i tuoi libri hanno aumentato o diminuito la tua fiducia? 
«Diminuito, credo. Mentre studiavo ingegneria mi veniva trasmesso che quelli che apprendevo erano fatti, che se li avessi applicati al mondo avrebbero funzionato, punto. Ciò che il giornalismo mi ha insegnato è che non funziona sempre così. La scienza è sì in grado di fornirci risposte universali, ma solo se al tempo stesso è cosciente dei problemi e dei pregiudizi al suo interno». 
Disuguaglianze e pregiudizi sono importanti per esempio in medicina. Citi molti esempi. Dalla popolazione selezionata per i trial clinici in base a certi preconcetti, all’idea che alcune malattie riguardino solo gruppi specifici. A una ragazza nera che menzioni era mancata una diagnosi di fibrosi cistica, perché si riteneva che fosse una malattia dei bianchi. 
«Si crede che il genere o l’appartenenza a un gruppo etnico abbiano molta più rilevanza dal punto di vista medico di quanta in realtà ne hanno. Al contrario, vengono sottostimati gli effetti sanitari della condizione sociale. Negli Stati Uniti c’è una differenza importante nell’aspettativa di vita dei bianchi e dei neri, si sa, ma non è dovuta a una differenza biologica, è dovuta alla diversità delle condizioni di vita. Lo stesso qui in Gran Bretagna, tra la popolazione ricca e quella più povera. I ricchi vivono più a lungo, ovunque. Ma è molto facile scambiare queste differenze per qualcosa di innato. Nel corso della pandemia abbiamo visto nascere e morire moltissimi falsi miti del genere. È il segnale di quanto restiamo, in fondo, fedeli al pregiudizio della razza. Ogni volta che utilizziamo delle categorie è necessario riconoscere i limiti di quelle categorie. La medicina, più che pensare in termini di gruppi, dovrebbe pensare sempre di più in termini di individui. Perché è come singoli soggetti che siamo così diversi l’uno dall’altro». 

L’impact factor crescente, sebbene di poco, di alcune riviste scientifiche che cercano di dare fondamento a idee sessiste e razziste, scrivi, è il segnale di qualcosa che sta succedendo su scala più ampia.
«È sempre più facile che i populisti vadano a cercare ai margini della scienza dei singoli ricercatori, delle singole riviste o delle singole teorie capaci di dare fondamento alle loro idee. Quindi l’editoria deve mettere in ordine la propria casa. L’accademia deve metterla in ordine. Le università devono farlo. Smetterla di proteggere le posizioni estremiste in nome di un’astratta libertà di espressione». 
A proposito di libertà di espressione, cosa pensi quando senti parlare di «dittatura del politicamente corretto»?
(Ride). «È questa la direzione che ha preso il dibattito in Italia?».
Un po’. 
(Le spiego in poche parole la discussione attorno al ddl Zan). «Proviamo a capire cosa significa “politicamente corretto”. Significa che sei attento e sensibile ai bisogni delle persone più vulnerabili nella popolazione. Che ti interessa cosa succede loro, e ti interessano le ripercussioni di certi discorsi sulle loro vite. Sappiamo che le persone transgender hanno subìto quantità sproporzionate di violenza. I gay e le lesbiche anche, magari più nel passato, ma ancora oggi. Quello che diciamo, perciò, come società è: ci impegniamo a rendere la vostra vita più facile. Come può essere una cosa negativa? Come si può essere contrari al ritenere fuori legge i discorsi di odio verso queste persone? A volte mi sembra che ci sia una grave carenza di empatia in tutto ciò. Se ci soffermassimo sul dolore e le ingiustizie che abbiamo sofferto, perché a chiunque di noi è successo, se sapessimo estenderli, non potremmo non essere politicamente corretti. È un sacrificio così minimo».