La Lettura, 23 maggio 2021
Intervista allo storico Niall Ferguson
Nell’anno della pandemia, lo storico Niall Ferguson si è immerso nella storia dei disastri: naturali e prodotti dall’uomo, anche se il confine fra gli uni e gli altri è meno netto di quanto si pensi. Il suo saggio precedente, La piazza e la torre (Mondadori), era «un tentativo di istruire me e gli altri sulla teoria delle reti». Il concetto di network gli è risultato utile per comprendere le dinamiche del contagio e guardare con occhio critico i modelli usati dagli esperti di salute pubblica. Il nuovo libro, Doom (Fourth Estate), è una storia in presa diretta della pandemia e un’ampia ricognizione storica per mettere in prospettiva quanto avvenuto negli scorsi mesi.
Come giudicheranno, gli storici del futuro, i lockdown del 2020?
«È ormai abbastanza chiaro che i lockdown sono stati una risposta subottimale: l’ultima cosa rimasta da fare, avendo perso l’opportunità di fare meglio. Sappiamo che Taiwan e la Corea del Sud hanno affrontato l’emergenza nel modo corretto. Si sono subito messe in condizione di produrre e somministrare test sulla scala più ampia possibile, hanno investito sul tracciamento dei contatti e si sono persuase a isolare le persone infette. Già nella primavera 2020 era evidente come la strategia corretta fosse quella».
Nessun Paese occidentale è riuscito a imitarle.
«In Occidente da principio, nei primi mesi dell’anno, abbiamo ignorato il problema, scegliendo di non provare a prepararci. Poi, quando abbiamo visto che il virus si stava diffondendo, siamo andati nel panico. In quel momento, abbiamo scelto di adottare una strategia ispirata a quella cinese. È una scelta che ha avuto molti e rilevanti costi inintenzionali: persone che sono morte perché non hanno avuto accesso alle cure per le patologie da cui erano affette, danni psicologici rilevanti, rallentamenti nell’apprendimento dovuti alla didattica a distanza. I vantaggi non sono stati zero, ma il beneficio netto è stato probabilmente molto basso. Il Covid-19 è un virus peculiare: diffuso da un numero limitato di infetti (i cosiddetti superspreader), si propaga negli ambienti chiusi ed è letale soprattutto per gli anziani. Un lockdowngeneralizzato, che blocca attività economica e vita sociale, non è una risposta sensata, come non lo è stato spostare gli anziani nelle Rsa».
Lei è fra i pochi che hanno paragonato il Covid-19 all’epidemia influenzale del 1957-58...
«Non si tratta di una comparazione perfetta, ma, sotto il profilo strettamente sanitario, è meglio che confrontare Covid-19 e influenza Spagnola. È stato rilevato, nelle ultime settimane, un aumento delle morti in eccesso causate dal Covid-19. Le stime per la mortalità legata alla pandemia sono comunque nell’ordine dello 0,17 per cento della popolazione mondiale, la Spagnola ne uccise l’1,7 per cento, quindi si tratta di un ordine di grandezza superiore».
L’epidemia influenzale del 1957-58, come lei scrive, ebbe però un impatto modesto dal punto di vista economico.
«Chiudere la società e l’economia non era un’opzione ai tempi di Dwight Eisenhower. È una possibilità che non abbiamo mai avuto prima, per il semplice fatto che non c’era internet. I disastri si vedono proprio dalle loro ripercussioni generali, al di là della cupa conta delle vittime. Che il Covid-19 potesse innescare una crisi economica è apparso possibile solo a marzo dello scorso anno, proprio alla luce degli spasmi dolorosi che arrivavano, in primo luogo, dall’Italia. Non c’è stato nulla del genere nel 1957. Di fronte alla mortalità in eccesso, poi, allora le persone avevano un atteggiamento diverso. La società era più robusta, perché gli individui sapevano e accettavano che tragedie di questo tipo potessero avvenire, avendo inoltre alle spalle l’esperienza della guerra. A noi non solo mancava un’esperienza diretta di una pandemia, ma eravamo condizionati pure dal ricordo di tante occasioni (da Ebola all’influenza suina del 2009) nelle quali si era gridato al lupo senza che poi il lupo arrivasse».
Confrontando Covid-19 e influenza asiatica, il mondo del 2020 e quello del 1957, lei nota che quanto più gli apparati dello Stato sono grandi e costosi, tanto meno risultano competenti. Che cosa dobbiamo aspettarci dall’amministrazione Biden, impegnata in un aumento senza precedenti della spesa pubblica?
«Karl Kraus disse una volta che la psicoanalisi è quella malattia di cui crede di essere la terapia. Ogni tanto penso che valga anche per l’espansione del governo federale sotto l’amministrazione Biden, con i suoi tre grandi programmi che stanno raggiungendo i seimila miliardi di dollari di spesa. L’esperienza dello stimolo di Obama dovrebbe suggerire prudenza, visto che il moltiplicatore della spesa pubblica risultò alquanto basso. È facile prevedere che questa spesa non produrrà esiti particolarmente positivi e in compenso disincentiverà gli investimenti privati. Quest’ampliamento dell’impronta dello Stato non è giustificato dalla performance dell’ultimo anno. Il settore pubblico non ha funzionato granché bene ed è difficile immaginare che sia un problema di risorse. Le burocrazie sembrano funzionare peggio quando si allargano. Per citare un articolo di Kingsley Amis, “di più significa peggio”».
La moltiplicazione dei controlli finisce per essere controproducente?
«Non ci sono mai state così tante persone che si occupano di regolazione dei mercati finanziari come negli ultimi trent’anni, eppure abbiamo avuto la crisi del 2007-2008. Ma è un fenomeno generale. I Centers for Disease Control and Prevention negli anni Cinquanta fecero un buon lavoro, lo scorso anno no: hanno completamente sbagliato con i test, non sono stati capaci di comunicare correttamente le modalità di contagio. Quando ripensiamo ai tempi di Eisenhower, ci accorgiamo che lo Stato in America era molto più leggero, sul versante civile perlomeno, ma anche più agile. E che la generazione che aveva fatto la Seconda guerra mondiale era più brava ad affrontare i problemi e probabilmente anche più brava a costruire le strade. Si capiva che essere pronti a un’emergenza non vuol dire avere a disposizione in qualche cassetto un rapporto di sessanta pagine».
Nelle conclusioni lei scrive: «La nostra peste avrà probabilmente un impatto più dirompente in luoghi dove il progresso è da tempo cessato e si è già in una situazione di stagnazione». Come vanno interpretate queste parole per l’Italia?
«La visione ottimistica sostiene che ora che Mario Draghi è capo del governo porterà in dono al Paese la sua magia, la stessa che ha usato per salvare l’euro. La competenza di Draghi è fuori discussione. Però è illusorio pensare che un uomo solo possa risolvere problemi che sono strutturali e che sono tipici delle istituzioni nazionali italiane. Per questo non è possibile immaginare che vengano risolti dall’Europa. Non bastano le iniezioni di spesa pubblica per far crescere la produttività. L’Italia è un Paese con una popolazione che invecchia e che non sembra avere alcun desiderio di risolvere il proprio problema demografico con l’immigrazione».
E l’Europa?
«Non credo che l’Unione Europea abbia i giorni contati, quella è una fantasia degli americani e dei sostenitori della Brexit. Ma non penso neppure che diventerà più federale: oggi l’Ue ha raggiunto faticosamente un punto di equilibrio e non vedremo, negli anni a venire, consistenti nuove cessioni di potere a Bruxelles. La pandemia non determinerà uno scatto in avanti. Next Generation Eu fa comodo all’Italia, ma non è destinato a produrre una nuova Europa. E in merito al quantitative easing, l’esperienza del Giappone dimostra che la politica monetaria non può guarire un’economia dalla stagnazione. Per carità, forse il Giappone non è un modello così sgradevole, per una condizione sostanzialmente stazionaria, per un’economia che non cresce più. Forse la situazione è tale che non dobbiamo illuderci ci sia modo per cambiare rotta. L’Europa è destinata a essere un po’ ospizio e un po’ museo».