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 2021  maggio 23 Domenica calendario

Conversazione tra Sandro Veronesi e Giuliano Sangiorgi

Un romanzo di rivolta senza compromessi come l’epoca in cui inizia, gli anni di piombo. Solo che nel libro Il tempo di un lento di Giuliano Sangiorgi (musicista, fondatore dei Negramaro, al suo secondo romanzo dopo la storia di formazione Lo spacciatore di carne, Einaudi Stile libero, 2012) la strategia della tensione e il terrorismo degli anni Ottanta risparmiano per un soffio il protagonista Luca, di anni tredici: il cui destino si compie tutto intorno all’emozione piccola e gigante del «primo bacio». 
Come un elemento emotivo minimo, il «privato» di un bacio, possa essere nel romanzo un fattore tanto dirompente da cambiare una vita, non è facile spiegarlo: Luca e la ragazza del bacio, Maria Giulia, scappano insieme per non tornare mai più; il padre di Luca, che li crede morti, ritroverà il figlio a New York trent’anni dopo, quand’è ormai un noto jazzista che ha suonato niente meno che con Miles Davis. Intanto, il mondo intorno continua a crollare: nel 1984, epoca in cui inizia il libro, esplode la bomba sul treno 904; e quando Luca inizia a frequentare l’ambiente jazz di New York, incombono sullo sfondo le Torri gemelle: eventi catastrofici che fanno eco a un presente non meno drammatico, l’attuale pandemia. Per uno strano sovrapporsi di emozioni molto ben calibrato, Luca appare al lettore come un adolescente di ieri ma anche come un ragazzo di oggi. O di domani. Un romanzo insolito, costruito lungo un amplissimo arco temporale, e che solleva molti temi, sul linguaggio delle emozioni, sulla letteratura, sulla musica, sulla ribellione, sulle generazioni: appare inevitabile quindi un confronto tra due autori, amici oltre che scrittori, che alle diverse generazioni hanno dato voci diverse, lo stesso Giuliano Sangiorgi e il due volte Premio Strega Sandro Veronesi. Il primo argomento è quello delle emozioni: nel romanzo i personaggi riescono a entrare in contatto attraverso le emozioni, che si tratti dell’amore, dell’affetto o della musica: Luca e Maria Giulia si amano e passano il tempo a baciarsi, nient’altro, e su nient’altro costruiscono la loro fuga d’amore; Luca approda a New York e nonostante un inglese stentato riesce a suonare con Miles Davis; il padre che vive in uno stato ormai confusionale riconosce il figlio vedendo una fotografia dei suoi occhi, su un giornale, e riesce ad attraversare l’oceano e ad arrivare in America quasi senza parlare, non solo l’inglese ma neppure l’italiano. 
Sono le emozioni i nostri linguaggi?
GIULIANO SANGIORGI — Ho provato ad avere sempre in mente l’emozione dei personaggi più che la storia. La storia è qualcosa che mi ha «illuminato» in una manciata di parole: quando ho iniziato a scrivere il romanzo, stavo per cambiare pelle, perché erano i giorni in cui scrivevo Amore che torni, la canzone che dà il titolo al penultimo album dei Negramaro ed è quasi di sottofondo all’intero libro; la canzone, nello stesso giorno, mi aveva ispirato l’inizio di questo romanzo, come se quelle emozioni avessero bisogno di uno spazio molto più grande, di quello spazio lunghissimo che è il romanzo – mentre la storia avrei potuto anche raccontarla in pochi versi. E sono emozioni che partono da microdettagli: quel che provo a fare, anche in questo secondo romanzo, è essere macroscopico nella descrizione di microemozioni. Una visione «microscopica» che mi ha sempre affascinato: piccoli dettagli possono mettere in contatto mondi diversi, no? – Miles Davis, il ragazzino Luca, il padre... Tutti sembrerebbero dei micromondi: ecco, le emozioni ti traghettano verso mondi possibili. 
SANDRO VERONESI — Credo che Sangiorgi abbia usato non a caso la parola traghettare: vorrei far notare che nel romanzo c’è anche una «traghettatura» dalla narrativa tradizionale. È un musicista, e non un musicista di sinfonie o d’opera, ma un musicista di canzoni. Questo significa che il suo modo di raccontare ha una trazione molto forte, che viene dalla padronanza della lingua, certo, ma anche da una capacità molto selettiva di procedere, di dedicarsi a un dettaglio – e non a tutti i dettagli, solo a quello, a quell’unico che fa avanzare la storia, mentre, lo dico da logorroico che deve sempre tagliare dopo avere scritto, i troppi dettagli la rallentano. Non è il caso di Sangiorgi, né nelle canzoni (le canzoni devono andare abbastanza precipitosamente verso la fine) e nemmeno nel romanzo, dove lui porta, anzi traghetta, un modo di concepire la trazione del racconto che è tipico della canzone. Dove hai un certo numero di minuti, puoi anche tirarla lunga, ma più di cinque-sei minuti non può durare...
GIULIANO SANGIORGI — Oggi una canzone di cinque-sei minuti è già un’opera. 
SANDRO VERONESI — Sì, e poi le radio non la trasmettono! Invece Sangiorgi parte da quel modo di concepire il racconto – quei quattro minuti di una canzone, anche due, due e mezzo (ci sono canzoni meravigliose che non arrivano a tre minuti e hanno una linea narrativa esaustiva, in cui tutto è detto, tutto è raccontato) – e lo trasporta in una forma espressiva, quella del romanzo, che prevede a volte anche 800-900 pagine. 
GIULIANO SANGIORGI — C’è una canzone stupenda degli Smiths, Please, Please, Please Let Me Get What I Want: è pazzesco come in due minuti alcune canzoni riescano a essere lunghi romanzi. Come ha detto Veronesi, non i troppi dettagli fanno una storia, ma pochissimi dettagli fanno grandi emozioni. Ad esempio sono affascinato dal cinema dei piccoli grandi dettagli, da quel cinema dalle macroscopiche emozioni che partono da microscopiche emozioni, per esempio Paolo Sorrentino, nostro regista e nostro amico, da un dettaglio emotivo piccolissimo costruisce lungometraggi. Io rimango affascinato: grandi visioni in piccole cose. 
SANDRO VERONESI — Ciò che è davvero godibile nel libro, e che pare quasi banale da dire quando a scrivere è un musicista come Sangiorgi, è che sembra usare le parole come note. E che quindi le parole non siano infinite, siano sette. E che combinando le parole si possano ottenere infinite emozioni, infiniti risultati, ma che non ci sia in realtà una partenza infinita: la partenza è quella, sono quelle emozioni, selezionate bene, anche estreme. Anzi, qui vorrei porre il primo tema che si impone nella storia: la fuga. Che è anche un tema musicale. Nel libro si compie una fuitina, come quelle del passato. 
GIULIANO SANGIORGI — Esattamente. 
SANDRO VERONESI — E la si radicalizza. Diventa una fuga senza fine. 
GIULIANO SANGIORGI — Estrema. 
SANDRO VERONESI — Peraltro c’è tutta una tradizione letteraria alta in materia; mi viene in mente Joseph Roth, Fuga senza fine, dove per l’appunto ci si lascia tutto alle spalle senza possibilità di rimpianto, come se non ci fosse modo di tornare indietro. Il modo c’è, ma in realtà, nel racconto che viene fatto da Roth, o nel racconto che viene fatto da Sangiorgi in questo libro, non c’è. C’è solo l’andare avanti. Mi piace molto che Sangiorgi scriva di questa fuga estrema, quando tutti i ragazzi pensano di fuggire, molti lo fanno... e tornano il giorno dopo. 
GIULIANO SANGIORGI — In realtà io sono rimasto sempre folgorato dalle storie di fuitina degli anni Settanta-Ottanta, dei nostri genitori. Quando l’amore era veramente spregiudicato, folle era il coraggio, il destino irreversibile. L’incoscienza di chi ha fatto quei gesti, creando nuove famiglie tra estranei, rompendo qualsiasi equilibrio, partendo da un microcosmo che è quello della piccola famiglia di un paese del Sud, poi di tutto il Sud, poi dell’Italia: sono piccoli equilibri che cambiano le sorti dell’universo. E loro ne erano stati capaci, i miei genitori. Ero affascinato quando sentivo che tutti, quasi fosse moda, «scappavano». Mia madre e mio padre si sono amati e hanno fatto dei figli da giovanissimi (senza essere costretti a farlo: erano studenti universitari, con una situazione bellissima alle spalle, in famiglia), però avevano il coraggio che non abbiamo più noi, che pure siamo forse l’ultima generazione nata da questo amore folle. Bruciare senza pensare alle conseguenze per sé stessi e per le altre persone: hanno solo pensato all’amore. Questo essere capaci di tutto, questa fuga, per me è sconvolgente. Perché noi non siamo stati più in grado. Noi siamo la generazione che, come dire, ha edulcorato l’amore, l’ha addomesticato, sotto il controllo millimetrico dei nostri stessi genitori che si sono scottati e quasi hanno paura di raccontartela, quella fuga; e invece da quella fuga siamo nati noi. È nato tutto il futuro. Oggi siamo di fronte a una generazione che a cinquant’anni ancora non fa figli, perché si crede giovane e perché i genitori hanno detto “prima, devi realizzarti”. E quei genitori sono gli stessi che hanno affidato il loro destino alla fuitina, che a diciassette, a diciotto anni li faceva scappare, e diventavano uomini e donne, e non tornavano indietro. Tanto che io, nel romanzo, Maria Giulia e Luca li faccio allontanare dopo l’84, nei loro viaggi interminabili: Luca arriverà in America, di Maria Giulia non ho voluto sapere più niente; perché in fondo, non era solo l’amore che ha fatto muovere le gambe a un ragazzo di quattordici anni in quegli anni di piombo. 

E oggi? Agli adolescenti di oggi appartiene o no questo tipo di emozione, questo amore assoluto? 
GIULIANO SANGIORGI — Credo che i ragazzi di oggi, le nuovissime generazioni, stiano riprendendo proprio questo tipo di emozioni. Io rivedo in questi ragazzi le generazioni dei nostri genitori in quegli anni; nei nuovi ragazzi c’è una rivoluzione culturale in atto che non è soltanto una rivoluzione di forma, o che riguarda l’estetica delle cose. Per la prima volta gli anni Sessanta sono finiti ieri, anzi stamattina. Sono durati settant’anni, sono durati un’eternità, ma ora i ragazzi stanno cambiando pelle, stanno cambiando modo di essere romantici, ed è estremamente affascinante, quasi punk, quello che sta per succedere nelle nuove generazioni. 
SANDRO VERONESI — Proprio questa parola volevo scomodare. Punk. Perché è una parola che unisce sia il romanzo, cioè lo stile di Sangiorgi, sia quello che viene raccontato nel libro. Punk. E non solo perché è una parola coeva con la storia o almeno con l’inizio della storia, ma perché, nell’accezione che do io a questo termine, di «emozione non elaborata» (punk io l’intendo così; anche la musica, che è stato il movimento più popolare e diffuso: ma il punk non è soltanto musica). Punk è musica non elaborata, assolutamente grezza, con l’arrivo però, e proprio per la mancanza di un’elaborazione, di un’emozione molto più violenta. È come prendere il cibo e cuocerlo senza cucinarlo, il sapore della sostanza che cuoci senz’altro è più forte di quando cominci a mescolare sapori fra di loro cucinandoli a tuo modo. Quel libro è un libro punk, perché marcia diritto nelle emozioni senza stare troppo a elaborarle, senza preoccuparsi di descrivere più di tanto il contorno del gesto che viene raccontato, senza star lì a storicizzare troppo, nemmeno a raccontarti le conseguenze. È molto bello che la ragazza scompaia, perché come ha detto bene Sangiorgi – ma lo si recepisce anche leggendo – non è soltanto l’amore che fa scoppiare la scintilla. Così come nel punk non è solo la ribellione nei confronti del potere, c’è anche l’amore (hai voglia se c’è!). Allora, qui c’è una scintilla d’amore che spara nel mondo due persone che altrimenti avrebbero dovuto sottostare a una serie di convenzioni sociali dalle quali non sarebbero più uscite (e quindi te lo sogni di fare il musicista a New York se non scappi con una ragazza che poi non vedrai mai più). Questa apertura di linee di probabilità, come diceva prima Sangiorgi, è stato il motore che ci ha messo al mondo, che ha fatto nascere noi, che ha portato la società nel futuro e che adesso si è fermato; ma è anche il calco stilistico che evidentemente, con quest’istinto meraviglioso che ha Sangiorgi nel cogliere e nel comporre appunto le emozioni e i linguaggi, ha prodotto il libro. Il libro è un libro punk, ed è un libro punk perché le grandi emozioni di cui parla non le elabora, le mette direttamente in pagina. 
GIULIANO SANGIORGI — Le generazioni nuove avranno una reazione punk. Come dice Veronesi, non è un fatto di estetica, ma di sostanza: avranno una reazione proprio nei confronti di tutto ciò che a noi oggi sembra il futuro. Ci sarà una reazione generazionale per cui questi ragazzi, nuovi sedicenni, nuovi diciottenni, saranno stanchi di tutto quello che sarà diventato convenzionale e che invece per noi viene quasi come dal futuro. Sono gli errori che la nostra generazione sta facendo, la paura di invecchiare, la paura di non essere contemporanei, la paura di non essere al passo con i tempi, che ci sta portando a seguire nell’amore una strada che è molto più edulcorata – nell’amore come in qualsiasi altra cosa, quasi tutto è standardizzato. Questi ragazzi avranno una reazione anche nei confronti del mondo degli influencer e del mondo dei social: loro sono già bravi a usarli e non farsi usare, credetemi, è cambiato il passo, sta cambiando da cinque anni a oggi. La nuovissima generazione sta andando verso i contenuti. Guardate quello che succede nella musica italiana: a prescindere dai gusti, c’è un nuovo codice linguistico che si sta creando; come nel Sessantotto, quando il linguaggio era cambiato e non potevi ammiccare a quei ragazzi con le canzoni degli anni Cinquanta. C’è da dire che poi questi giovanissimi hanno una fisiologia della memoria, come qualsiasi generazione. Io, nato nel 1979, ricordo al massimo gli anni Sessanta. I ragazzi non possono avere un bagaglio culturale dalla memoria così grande, quindi ricorrono agli anni Ottanta, come punto più lontano della loro memoria. Ed è anche fisiologico, loro sono già pronti a rinnovarsi nei contenuti. Sarà così: nel giro di dieci anni saranno stanchi di tutto quel che oggi a noi pare moderno (a noi vecchi consumati, con la paura di non essere contemporanei e quasi senza capacità critica, che proviamo a dire che tutto è bello quello che è moderno). Loro stanno già avanti. E questo ha un fascino per me incredibile. Ritrovarmi a cavallo di questa rivoluzione di sostanza, di carne e ossa, a me fa solo piacere, oltre a incuriosirmi. E sono felice che attraverso la musica (il primo approccio istintivo, dell’anima, di qualsiasi generazione) ancora oggi io mi metta in crisi. Le nuove generazioni mi fanno capire che o si salta il fosso e lo si fa con coerenza e contenuto, e si arriva a parlare ai ragazzi, oppure, se perdiamo tempo dietro ai mille dettagli della forma, noi pensiamo di essere al passo ma abbiamo perso il contenuto. Quindi per me il contenuto è punk e le nuove generazioni sono già questo.

Il romanzo si apre con una citazione in esergo di Miles Davis e si chiude con una cover di «Anna e Marco» di Lucio Dalla. Perché? 
GIULIANO SANGIORGI — Perché non c’è differenza tra Fotoromanza di Gianna Nannini, la musica di Miles Davis e il nuovo punk delle nuove generazioni, se si parla di contenuto e non di estetica. Il jazz non è estetica, come non lo sono le canzoni pop che attraversano i tempi o il rock anni Settanta che ancora oggi ascoltiamo. L’estetica, la forma, è solo il primo passo di chi si avvicina a un ambiente artistico: anch’io con il primo romanzo Lo spacciatore di carne l’ho fatto, ti impreziosisci, magari sei ridondante, ti metti un abito eccessivo perché nascondi una sostanza che stai ancora coltivando. Ma nei grandi musicisti e nelle grandi canzoni non esiste il genere, come nella letteratura, come nel cinema. Esiste solo un grande cinema, una grande letteratura, una grande musica. 
SANDRO VERONESI — Non ne abbiamo mai parlato, ma io la penso esattamente come lui. Cioè, qui non si tratta di seguire l’esempio di Luca, che è una storia non esemplare ma fatta apposta per andare a frugare in quei punti estremi. La parola fuga, intesa nel suo significato estremo, vuol dire: niente ritorno. E significa ritrovarsi vent’anni dopo con un padre al quale non si racconta nulla – cosa vuoi raccontare? – ormai quello che è stato è stato, non va spiegato, non va giustificato. Questo è sicuramente un pregio del libro, ma è anche un modo di vedere le cose, e quello sì può essere benissimo replicato. E io sono convinto che verrà replicato dai ragazzi delle nuove generazioni, neanche dai miei figli più grandi, ma da quelli più piccoli, che ora sono bambini. Perché è un modo di sopravvivere. Noi abbiamo ingombrato il futuro di questi ragazzi di tutte le nostre incertezze, di tutti i nostri ritardi, del sentirsi padri, del sentirsi madri, quando invece i nostri genitori, generosamente, si buttavano: così come andavano alla guerra a farsi macellare, quando non c’era la guerra si buttavano nell’amore. E non era detto che poi durasse, non era detto che fosse felicità per sempre. Ma intanto mettevano al mondo figli, e i figli andavano in giro per il mondo anche loro, emigrando anche loro, con un coraggio che adesso si è perso e che deve essere ritrovato. Secondo me questi ragazzi lo ritroveranno, per forza, perché è l’unica loro maniera di sopravvivere. Alla fine, questa cosa che abbiamo chiamato punk, e che adesso a 40 anni di distanza può anche essere storicizzato come hanno storicizzato tutto, però è un’attitudine che tornerà molto utile a questi ragazzi. 
GIULIANO SANGIORGI — Utile, e necessaria. 
SANDRO VERONESI — Credo che la parabola di Luca, che deve trovare sé stesso e si deve trovare molto lontano da dove è partito, sia questo. E non è una velleità che si trovi a New York, visto che la musica, in quel momento, era là. E infatti poi c’è il classico «incontro del destino» con Miles Davis, che nel libro è molto bello. Io non ho conosciuto Davis, non so Sangiorgi (anzi, glielo volevo chiedere): ma quel che si sa è che Miles Davis era molto curioso, ed era molto aperto agli altri musicisti, fatto da cui nasce quello di cui tu anche parli nel libro, la sua collaborazione con Zucchero, riguardo alla quale però io so un aneddoto molto divertente che mi ha raccontato Tom Barman, dei dEUS. Una volta Miles Davis era a Milano per alcuni concerti e ha chiesto: «Chi è stasera il miglior musicista che suona qui?». L’hanno portato da Zucchero, ma il concerto era finito. Davis resta fuori, nella macchina nera, di notte, con l’autista, e vanno dentro a chiamare Zucchero.
GIULIANO SANGIORGI — C’è dio, fuori!
SANDRO VERONESI — Zucchero arriva, entra nella macchina e... si siede su Miles Davis, ci si siede sopra, perché lo scambia per la tappezzeria. E questo è stato l’approccio tra loro: Miles Davis era una persona che si faceva sedere sopra dalla gente, da tanto era curioso. Quindi era da lui che Luca doveva andare; non da Keith Jarrett, che invece non gli avrebbe probabilmente mai rivolto la parola. 

GIULIANO SANGIORGI — Mi viene in mente quello che è successo in un posto piccolissimo, il Contestaccio, in cui suonavamo con gli amici per trenta persone, dove una volta ho portato Renato Zero, una volta Gianna Nannini, e suonavamo insieme. Una notte hanno bussato alla porta; c’era Lello che gestiva queste serate insieme a noi, va alla porta e gli dicono: scusate, abbiamo i Metallica in macchina, volevano passare qui. E lui rispose: se tu c’hai i Metallica in macchina, io c’ho l’Uomo Ragno nel cofano. Invece erano proprio loro, e ci siamo ritrovati a suonare insieme alle sei del mattino. Queste cose incredibili succedono, Veronesi mi ha riportato a uno stile di vita in cui tutto è possibile, nella musica. 
SANDRO VERONESI — Non so se Sangiorgi ha mai conosciuto Miles Davis, o solo la sua leggenda.
GIULIANO SANGIORGI — Non l’ho conosciuto, ma nella mia esperienza con la musica, da quando ho sei anni, a me pare di conoscere gli artisti attraverso la loro opera. Non sto esagerando, io non sapevo di questa storia che ha raccontato Veronesi, mi sono avvicinato istintivamente alla musica di Miles Davis e mi ha suscitato condivisione, follia, comprensibilità nella complessità (una cosa che cerchiamo tutti, essere non «faciloni», però arrivare al cuore). Lui ha fatto questo, nella complessità lui ha scritto Kind of Blue, ha scritto So What; nella difficoltà del ritmo dispari di So What riesce ad arrivarti come fosse acqua fresca. I grandi si fanno conoscere attraverso la loro opera, e lui mi ha fatto «vedere» con la musica proprio il personaggio che ho descritto. Mi succede anche con le nuove generazioni, le nuove leve: in studio da me a Roma è venuto Aiello, qualche giorno fa, solo perché avevo scritto di lui che mi piace tantissimo quello che fa. E quando è entrato per la prima volta nel mio studio... ci conoscevamo da una vita. Lo stesso è successo con Jovanotti: eravamo fottutamente amici. 
SANDRO VERONESI — Io credo che se non ci si rende orfani, come si rende orfano Luca con una scelta come quella nel romanzo, non si è in grado, ad esempio nel mondo della musica che è quello più generoso di tutti, della condivisione piena, non ci si può mettere a dipingere insieme, non ci si può mettere a scrivere insieme, ma ci si può mettere a suonare insieme anche se uno è iraniano e l’altro è dell’Alaska – ma non si può godere pienamente di questa condivisione, senza la fuga. La fuga di questo romanzo: su questa fuga si innesta (non faccio spoiler perché ormai s’è detto) una tragedia come quella dell’attentato al Rapido 904, nel 1984. E lì si verifica l’occasione, che solo un’anima punk riesce a sentire come tale, di chiudere completamente con il passato, cioè di mo-ri-re. E rinascere a vent’anni a New York, orfani, totalmente orfani e bisognosi di qualsiasi abbraccio. Perché la musica, questo abbraccio, lo dà.