il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2021
Biografia di Giorgio Bracardi raccontata da lui stesso
Da molto prima di qualunque pandemia. “Detesto dare la mano, non sopporto i baci e qualunque contatto fisico estemporaneo. Così, da anni, quando qualcuno mi riconosce e si avvicina gli regalo un bel saluto romano, alla Ermanno Catenacci, e sono contenti”.
Il gerarca Ermanno Catenacci è uno dei personaggi di Giorgio Bracardi, 88 primavere, passo svelto (“mai stato in ospedale”), maglia nera a pelle (“vabbè, ma è un caso”), guanti di plastica per marcare meglio le distanze e con una serie di sue “maschere” storiche, come Scarpantibus o il dottor Onorato Spadone, che all’improvviso si palesano, quasi lo posseggono, alterano la voce, mani a sfarfallare davanti al naso, occhi all’insù, frasi incomprensibili. (“Non ho quasi mai avuto il copione; e ho inventato il tormentone”).
Giorgio Bracardi è uno dei grandi protagonisti di Alto gradimento e di molti programmi successivi, “però sono in causa con Arbore”.
Il primo palco.
Non c’è un momento esatto, sono cresciuto dentro i teatri: a Roma, mio padre ha gestito per qualche anno il Salone Margherita e poi un’altra famosa struttura; mio fratello grande mi ricorda sulle gambe di Ettore Petrolini e con un giovanissimo Aldo Fabrizi; (sorride) ho ancora il ricordo di papà quando tornava a casa e raccontava: “Appena Petrolini apre bocca, viene giù il teatro per le risate. Senza proferire parola”.
È nato nel 1933, ha vissuto in pieno la guerra.
Dopo il bombardamento di San Lorenzo papà decise di portarci nelle Marche: “Così state più tranquilli”. Un cavolo. Ho visto di tutto. Con la nostra villa occupata prima dagli inglesi e poi dagli americani.
Paura?
Da ragazzino non puoi averla: quando cadevano le bombe, con un amico correvo in strada per recuperare le schegge, e mamma dietro che gridava di lasciarle a terra. (Sorride) Papà parlava perfettamente sia il tedesco sia l’inglese: se lo fermavano per i controlli, riusciva sempre a sfangarla, anche se stava su un camioncino con dentro, nascoste, le provviste per noi.
Il dopoguerra.
Complicato, ma la svolta è arrivata dopo il militare, quando sono partito per l’Australia…
Tipo il film di Sordi.
No, da musicista, ho vissuto due anni magnifici; l’alternativa era l’Inghilterra come bracciante per la raccolta delle mele.
Insomma, artista.
Papà non voleva, temeva la disoccupazione: “Giorgetto, in questo mondo non riesce quasi nessuno”. Poi da ragazzo ero malaticcio, ho beccato tutto il possibile dell’epoca, un disastro: quando veniva il medico il suo sguardo dava poche speranze.
Australia.
Suonavo il pianoforte nei grandi alberghi, mi divertivo, guadagnavo e, soprattutto, bastava poco per sedurre le donne: non sapevo a chi dare i resti; (cambia espressione) anche se gli italiani non godevano di grande fama.
Come mai?
Arrivavano in Australia e pensavano di portar con loro anche un bagaglio di tradizioni o abitudini decisamente improprie: (sorride) alcuni venivano arrestati perché andavano nei parchi pubblici e con le doppiette sparavano agli uccelli.
Due anni e poi basta.
Lì stavo bene, ma la Roma di quel periodo era il massimo, una magia, una polarizzazione di bellezza e gioia, con via Veneto che appariva come il centro assoluto del mondo: tutti uscivano vestiti in un certo modo, la giacca e la cravatta erano implicitamente obbligatorie, come il lungo per le donne; e poi i macchinoni americani, le star alla Kirk Douglas o Gianni Agnelli, la musica che usciva da ogni portone. Noi ragazzi li guardavamo e ridevamo per la felicità; la Dolce Vita ci guardava e rideva per il nostro stupore.
La svolta.
È arrivata prima come autore di canzoni: uno dei miei brani è Baci, Baci, Baci portato a Sanremo da Wilma Goich; poi mi sono unito ai Flipper per una tournée in Spagna, insieme a me anche mio fratello Franco. Lì un giorno mi chiama una radio privata e all’improvviso nasce lo Scarpantibus, il mio uccellaccio dalle sembianze umane.
Quindi…
A Gianni (Boncompagni) e Renzo (Arbore) arriva la notizia di questo exploit spagnolo e mi contattano, cercavano qualche novità perché Alto gradimento non andava benissimo, vivacchiava; comunque mi presento, ridivento Scarpantibus ed è un successone; da lì mi hanno coinvolto tutti i giorni fino a quando, per le telefonate dei ragazzini, sono saltati i centralini della radio; ricordo Jacovitti che mi chiama alle sei del mattino solo per complimentarsi.
Il metro della svolta.
I pacchi e pacchi di lettere, le telefonate a casa di mia madre e i fotografi che mi aspettavano all’uscita della radio.
Le girava la testa.
No, credevo fosse una fase.
Però ha capito il valore del “tormentone”.
Credo proprio di averlo inventato; il valore di “perché non sei venuta, tinnnn!” è solo nella ripetizione, in assoluto è una stronzata, un po’ come “l’uomo è una bestia”, funziona se lo replichi all’infinito; (ci pensa) e poi stava finendo l’epoca del copione.
Niente copione, per lei?
Solo per il cinema, altrimenti non sono capace, perdo spontaneità: i miei personaggi li scrivo, me li appunto, ma sono tracce, per il resto devo sentirmi libero.
I colleghi la temevano?
Abbastanza, preferivo stare da solo.
Lei sul palco.
Il momento più bello del mondo, quando ti senti un padreterno.
Diventa una “droga”…
C’è chi si è suicidato per la mancanza di successo, o chi si è dato al bere o alle droghe. Io non ci penso proprio. Amo la mia vita privata, quando mi piazzo davanti al pianoforte.
Litigavate ad Alto gradimento?
Gianni e Renzo tantissimo, quasi tutti i giorni. Mario (Marenco) no; Mario era un genio senza regole, totalmente imprevedibile, quasi terrificante, con addosso una cultura inaspettata: doveva diventare docente, ma la domanda gli è stata respinta perché arrivata troppo tardi. Quel rifiuto si era tramutato in una sorta di vanto, tanto da incorniciarlo e appenderlo al muro.
Lei tra Boncompagni e Arbore…
Gianni più umano, e ne parlo al presente, mentre Renzo più spietato: quando deve raggiungere un obiettivo, non lo ferma nessuno; con lui sono in causa.
Per cosa?
Per Alto gradimento: non mi riconosce i giusti meriti per la trasmissione, anche economici; Gianni e Renzo prendevano il 90 per cento, a me e Mario il resto.
Secondo Frassica lei è un genio con un carattere impossibile.
Nino è prepotente e furbissimo, spesso abbiamo rischiato la lite; a volte mi ha trattato come se io fossi la serva e lui il padrone di casa. Detto questo, lo considero bravo.
Frainteso sul palco?
(Ride) Mario una volta è scappato da Parma in macchina.
E lei?
Primissimi anni Settanta, mi chiama Jimmy Fontana e mi coinvolge in una serata a Macerata. Arrivo. Tutto esaurito. Mi vesto da Catenacci e inizio lo spettacolo: passano pochi minuti e sento “buffone”, “stronzo”; guardo bene la platea e capisco dove sono: era un covo di fascisti. Prendo fiato e coraggio, urlo “un momento, vado a recuperare il manganello e torno subito”, e invece mi chiudo in camerino, apro la finestra, lancio il mio bagaglio, mi butto e atterro su un cucuzzolo di neve. Sono scappato di notte verso Roma.
Sono gli anni di lei impegnato al cinema.
Lì mi vergogno in maniera assoluta: ho partecipato a molte porcate.
Anche a suo tempo le giudicava così?
Eccome! Eppure ho girato con Vittorio De Sica e Luciano Salce, ma quando firmavamo il contratto, l’accordo con la produzione era che le pellicole non dovevano arrivare a Roma, ma fermarsi nei circuiti periferici di provincia.
Niente “marcia”…
Noi contenti, pagavano bene, poche settimane di set, ci vedevamo tra amici, due risate e via. Poi sono nate le televisioni private, hanno acquistato i diritti e ci hanno massacrato: ricordo ancora Salce disperato.
Dolore.
Una sera chiamo una mia amica: “Per favore accompagnami al cinema, proiettano il film in un d’essai e devo capire la reazione del pubblico”. Mi maschero con sciarpa e cappotto, entro, ma ho retto poco: piangevo per la vergogna.
Non ne salva neanche uno?
Banana Joe con Steno regista e Bud Spencer protagonista, solo che si girava in Colombia; prima di partire, alle tre di notte, mi chiama proprio Steno: “Bracardi! Porta venti stecche di sigarette e della cioccolata”. Non ricordo cosa altro. Non capivo. Atterrato, in dogana, è stato tutto chiaro: la polizia non ci voleva far passare, poi si sono fregati un po’ della mia dote.
Un set pericoloso.
Eravamo circondati dalla sicurezza, fuori dal set era guerra tra Colombia e Venezuela, con Bud sempre chiuso nella roulotte per cucinare chili e chili di pasta. Persona stupenda.
Ha girato con tutte le belle di quel tempo…
Moana Pozzi la più intelligente: a vent’anni sembrava un’intellettuale e un giorno, davanti al mio stupore per la sua carriera, inquadrò la situazione: “Già da piccola desideravo questa vita”.
Nel curriculum c’è un film con Franco e Ciccio.
Persone meravigliose, generose, davanti a loro mi tolgo il cappello; (ci pensa) però sapevano che il produttore era il “Papa”.
Chi?
Mi telefona il mio agente: “C’è un film in Sicilia con Franchi e Ingrassia”, io resto freddino, allora ero un po’ snob, li giudicavo male. Comunque accetto, parto per Palermo, e sono ospite di grandi alberghi, grandi cerimonie, tutto al massimo, fino a quando una sera trovo in un salone il pianoforte e inizio a suonare: arriva la moglie del produttore, fisarmonicista, si infervora e il marito mi invita a cena a casa loro.
Sempre tutto regolare.
Insomma, qualche segnale di stranezza iniziavo a coglierlo: il “Papa” viaggiava solo in Ferrari, ne possedeva due, una rossa e una nera, e sistematicamente le parcheggiava aperte in mezzo alla strada o davanti al ristorante. Io allibito: “Non è pericoloso?”. “Bracardi, che dice? Sono i giornalisti del Nord a diffamare questa povera terra. Qui non succede mai niente”. Era don Michele Greco, capo della mafia, soprannominato il “Papa”: suo figlio era uno degli attori del film (Giuseppe Greco, anche sceneggiatore, ndr).
Perfetto.
Per festeggiare la fine delle riprese ci ha invitato nella sua tenuta, con una tavolata organizzata a ferro di cavallo, con il pesce che arrivava direttamente dal porto. Il Papa durante la cena imponeva a Franchi di mettere in scena i suoi personaggi: “Fai l’orso”. “Fai questo”. “Fai quello”.
E poi?
Torno a Roma, passa qualche tempo, accendo la televisione, mi sintonizzo sul telegiornale e trovo il “Papa” in manette; giorni dopo mi ha convocato un magistrato.
Rapporto con suo fratello Franco…
(Resta in silenzio, si commuove) Era un angelo. (E non parla più).
Un rimpianto?
Forse di non essere rimasto in Australia: lì avrei costruito una grande carriera da musicista.
L’hanno mai accusata di pazzia?
Sempre! Ma è un problema di mentalità: chi è diverso viene etichettato.
Lei chi è?
Un artista al cento per cento.