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 2021  maggio 23 Domenica calendario

A prendere decisioni sono gli incoscienti

Il fatto che i testi odierni di neuroscienze cognitive contengano più pagine dedicate all’inconscio che alla coscienza potrebbe far supporre che, dopotutto, Freud ha avuto la sua rivincita, e che il progetto, da lui in effetti presto abbandonato, di fondare scientificamente la psicoanalisi sulla dottrina del neurone sia in dirittura d’arrivo. In realtà quello delle scienze moderne è un inconscio cognitivo piuttosto che affettivo, dominato da inferenze e ragionamenti più che da passioni e pulsioni. 
La grandissima parte della nostra vita mentale si compie senza un accompagnamento consapevole; anche per la piccola porzione caratterizzata da coscienza siamo consapevoli solo dei prodotti finali del lavorio della mente, mentre il suo operare ci rimane comunque inaccessibile. La distinzione tra processi consci e inconsci è testimoniata dalla vasta raccolta di casi che viene dalla clinica neuropsicologica (ma vedi anche Legrenzi, Umiltà, Molti inconsci per un cervello, Il Mulino). Ad esempio, i pazienti affetti da eminegligenza spaziale non sono consapevoli di quel che accade nel loro emicampo visivo di sinistra, ma di fronte all’immagine di una casa avvolta dalle fiamme sul solo lato negletto rifiutano di sceglierla pur senza saper dire perché; oppure, i pazienti affetti da prosopoagnosia, incapaci di riconoscere coscientemente un volto familiare, mostrano nondimeno segnali di riconoscimento inconsapevole nelle variazioni di conduttanza della pelle; o, infine, i pazienti affetti da vista cieca (blindsight) pur negando di vedere alcunché sanno indicare con il dito dove è stato proiettato un breve lampo di luce.
Il libro del neuroscienziato Christof Koch illustra con chiarezza che la coscienza è avere esperienze, sentire qualcosa, e perciò non si identifica con pensare, ragionare o prendere decisioni, che sono tutte attività che possono essere esplicate senza che siano accompagnate da coscienza (persino l’attenzione, ci dice Koch, è una cosa distinta dalla coscienza). 
Il testo è interessante soprattutto quando si sofferma sui correlati neuronali della coscienza. L’autore sostiene che la coscienza risiede nella corteccia, pur ammettendo che sia il tronco encefalico che rende possibile la coscienza. Il problema è noto da tempo. Il neurochirurgo canadese Wilder Penfield aveva mostrato che la rimozione di porzioni anche estese della corteccia non determina la perdita della coscienza. D’altro canto è pur vero che una lesione bilaterale massiva della corteccia lascia il paziente in uno stato vegetativo persistente. Tuttavia il danno alla corteccia inevitabilmente coinvolge il tronco encefalico, che in condizioni normali riceve segnali dalla corteccia. Perciò non si può davvero dire che la funzione corticale sia quella cruciale per la coscienza. Koch asserisce che il tronco encefalico rende possibile la coscienza, ma non ne fornisce i contenuti. Tuttavia il tronco dell’encefalo non pare svolga un ruolo solo permissivo. Damasio, ad esempio, pensa che le sensazioni viscerali prodotte dai nuclei del tronco siano alla base di ciò che lui chiama proto-io. D’altro canto è indubbio che lesioni localizzate alla corteccia possano far venire meno specifici contenuti di esperienza, come nel caso dei pazienti affetti da vista cieca che riferiscono di non avere alcuna esperienza visiva degli stimoli presentati nella porzione cieca del campo visivo pur potendo mostrare alcuni comportamenti visuomotori appropriati nei riguardi di quegli stessi stimoli (cfr. sopra). Tuttavia se la corteccia e altri distretti del sistema nervoso provvedono solo i contenuti perché affermare che la coscienza risiede (solo) nella corteccia? Tra l’altro sappiamo che in altri organismi vi sono strutture con architetture assai diverse dalla corteccia che pure svolgono funzioni dello stesso genere, e nessuno dubiterebbe, credo, che un pappagallo provi qualcosa anche se non sapremmo dire se la sua corteccia fatta a nuclei provveda contenuti diversi alle strutture del tronco rispetto a quelli che vengono forniti dalla struttura fatta a lamine della corteccia di un mammifero. 
Inoltre dovremmo accettare l’idea che ci siano molte coscienze, non una; o, perlomeno, che non esista un centro unitario della coscienza, tipo la ghiandola pineale di Cartesio. Questo perché le dimostrazioni relative ai vari tipi di inconscio cognitivo sono specifiche, non generali. I pazienti affetti da vista cieca possono rispondere agli stimoli visivi senza fare esperienza di questi stimoli, ma non hanno perduto la capacità di avere esperienze in altri domini, per esempio provano qualcosa quando odono o toccano degli stimoli. Non è mai stata descritta, che io sappia, una condizione di funzionamento generalizzato a livello del comportamento (che escluda quindi una condizione come quella dello stato vegetativo) nella quale tutti i contenuti di coscienza siano assenti. Abbiamo evidenza di zombie locali, ma non generali. 
Più complicato il giudizio sulla parte del libro nella quale Koch manifesta il suo entusiasmo per la teoria dell’informazione integrata di Giulio Tononi. Vari studiosi di formazione matematica hanno espresso di recente delle riserve sul fatto che i concetti della teoria siano ben definiti. E il filosofo Paul Thagard ha notato che l’affermazione di Koch secondo cui la coscienza sarebbe una proprietà fondamentale di qualsiasi meccanismo che abbia potere causale su se stesso si applica benone allo sciacquone del WC (come a qualsiasi macchina che utilizzi un meccanismo a feedback). Dal mio punto di vista, comunque, il problema maggiore è che la teoria propone una misura dell’informazione, ma non ci dice nulla sulla natura delle esperienze, sul perché siano comparse e sul perché siano così diverse tra loro (come lo è vedere il rosso o odorare il profumo di una rosa). 
Resta il plauso a Koch per aver sdoganato, assieme al suo mentore Francis Crick e a un manipolo di altri studiosi, lo studio della coscienza come un tema di ricerca scientificamente rispettabile, anziché il sintomo, come sostenuto dai colleghi più maliziosi, di un’incipiente affezione che tenderebbe a colpire scienziati illustri ma attempati.