Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2021
Filippo IV, sovrano malinconico
Velázquez ha lasciato ritratti memorabili di Filippo IV di Spagna, con il suo volto allungato, il caratteristico mento prognato degli Asburgo, le labbra carnose sulle quali posano imperiosi baffi all’insù, le palpebre cadenti sugli occhi inespressivi, le vesti sfarzose intessute d’argento, i cavalli rampanti, i bastoni del comando: ritratti fisici che sembrano anche ritratti intellettuali e morali. Era salito al trono nel 1621, a 16 anni, e a 10 era già sposato a una figlia del re di Francia in pegno di un’improbabile pace. Nel pieno fulgore scenografico dell’età barocca dovette governare un impero che la conquista del Portogallo nel 1580 aveva esteso dal Mediterraneo e dall’Atlantico alle coste dell’India, della Cina e del Giappone, autentico rey planeta sulle cui terre non tramontava mai il sole.
Suo padre, l’indolente e probo Filippo III, non aveva saputo affrontare la profonda crisi economica in cui stava precipitando un Paese perso come don Chisciotte dietro i suoi sogni di grandezza. Aveva affidato il suo omonimo erede al don Gasparo de Guzmán, il mitico conte-duca d’Olivares, per oltre vent’anni alla guida di un impero che il carnaio della guerra dei Trent’anni finirà col travolgere, lasciando la Spagna militarmente sconfitta, finanziariamente sfiancata, politicamente indebolita, territorialmente amputata.
Le campagne militari nelle Fiandre e in Italia consumarono senza sosta le armate spagnole e le risorse dell’argento americano; nel 1640 il Portogallo ne approfittò per riprendere la sua indipendenza, portandosi via i domini coloniali asiatici; protetti da antichi privilegi, alcuni regni si sottrassero al sempre più gravoso carico fiscale e l’Olivares vide fallire il suo progetto di Unión de las armas, che prevedeva addirittura la conquista militare dell’Aragona; la peste infierì in tutta Europa tra il 1629 e il 1633, e ovunque fame e povertà provocarono rivolte, come quella guidata da Masaniello a Napoli; per la prima volta i leggendari tercios di Castiglia furono sconfitti, mentre i cugini tedeschi di casa d’Austria alla testa del sacro romano impero dovettero misurarsi con gli eserciti messi in campo dai principi protestanti, dal re delle nevi Gustavo Adolfo di Svezia, da Gábor Betlehen e dagli ottomani in Ungheria e infine dalla Francia di Richelieu.
Filippo IV morì nel 1665, lasciando il trono al suo unico figlio superstite, un bambino rachitico di 4 anni, Carlo II, debole di corpo e di mente e non in grado di avere eredi, l’ultimo degli Asburgo a cingere le corone di Castiglia e d’Aragona. Nel tramonto dello splendore artistico e letterario del siglo de oro si inaugurava al di là dei Pirenei quello che Voltaire avrebbe definito il secolo di Luigi XIV, Louis le Grand, il re Sole, che prima di morire avrebbe visto un Borbone diventare re di Spagna.
Si comprende quindi come Filippo IV sia stato spesso presentato come un inetto, sempre immerso nelle pratiche devote con cui cercava di espiare l’irrefrenabile sensualità che fin da ragazzo, forse vittima di un’educazione repressiva, lo portò a consumare «di femmina in femmina le ultime stille di vitalità del sangue d’Asburgo», come ebbe a scrivere Giorgio Spini in un corrusco ritratto. In questo libro, invece, pur non negando le molte debolezze del re, Aurelio Musi ne offre un’immagine in parte diversa: quella di un re «malinconico», vissuto sul «difficile crinale che separa l’inerzia dall’esaltazione» e a suo modo «interprete della malinconia di un impero che, nel giro di qualche decennio, oscillò tra apogeo e declino, tra luce e ombra, tra il delirio imperialistico e lo svanire della speranza di continuare ad essere il centro del mondo».
Certo, nella prima e più drammatica parte del suo regno egli fu sovrastato dalla personalità dell’Olivares, pronto ad andare ben oltre le forze di cui disponeva per difendere l’onore, la grandezza, la «reputazione» del suo re e della Spagna, che a buon diritto fu la Spagna dell’Olivares non quella di Filippo IV. Per questo sono interessanti soprattutto le pagine che Musi dedica agli ultimi anni del suo regno, quando il desiderio di riscatto da un’infanzia infelice, dalle sfrenatezze libertine, dalle sconfitte militari, dalla morte dei suoi figli, vissute come giuste punizioni divine, si espresse nel carteggio con suor Maria di Gesù, badessa del monastero di Agreda protagonista di miracoli di bilocazione, che reincarna il modello delle «sante vive» delle corti rinascimentali.
Ben 614 furono le lettere, di argomento anche politico, scambiate fra il re e suor Maria, che non esitò a criticare il regime fazionario vigente a corte e il governo affidato ai favoriti del re; cercò di influire sulla scelta dei ministri dopo la caduta dell’Olivares; fornì pareri sul conflitto tra Castiglia e Catalogna; diede consigli sulle decisioni che il sovrano era chiamato a prendere, per ripiegare poi negli ultimi anni soprattutto sui temi religiosi della sua Mística ciudad de Dios, sulla strenua difesa della dottrina immacolista, sulla canonizzazione di esponenti della dinastia asburgica.
Furono anche l’affetto e la consolazione di suor Maria de Agreda a sostenere il sovrano negli ultimi vent’anni di regno in cui si sforzò riprendere in qualche misura le redini del governo, di interpretare la figura del rey católicoe di assistere con dignità all’inesorabile esaurimento della sua stirpe e al malinconico declino dell’impero spagnolo.