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 2021  maggio 23 Domenica calendario

Tutto su Piero Amara

Come diavolo è stato possibile che un professionista di 52 anni, Piero Amara, avvocato siciliano di Augusta, abbia dato scacco, nello spazio di pochi anni, a un pezzo della magistratura italiana e a un colosso come Eni? E, soprattutto, come è potuto accadere che sia scivolato, sin qui sostanzialmente indenne, tra le maglie di inchieste di diverse Procure riuscendo a minare, con la vicenda della fantomatica loggia Ungheria, ciò che resta dell’immagine, del prestigio e dell’autonomia dell’ordine giudiziario? O, quantomeno, della sua percezione? Siamo tornati ad Augusta, dove Amara è nato nell’ottobre del ’69 e a Siracusa, dove tutto è cominciato. Dove il suo “metodo” è stato perfezionato e battezzato. Dove il suo portafoglio di relazioni e la forza di ricatto costruita su informazioni riservate e debolezze umane, quella che si conferma il cemento del Potere e di parte significativa della classe dirigente del Paese, si sono gonfiati consegnandogli le chiavi per la scalata al cielo. E dove qualcuno avrebbe potuto fermarlo quando ancora, forse, si era in tempo.
La finanziera
«Gioia mia u tavulu è pronto». Ha sempre apostrofato tutti i suoi avventori così la titolare del ristorante “la Finanziera”, “Gioia mia”. Anche l’avvocato Piero Amara, quando si accomodava nel riservato e riparato soppalco del locale di via Epicarmo, a Siracusa, a poche decine di metri dal comando della Guardia di Finanza. E vai a capire se il destino avesse deciso ab ovo di mischiare le carte e scherzare con una certa prossimità tra guardie e ladri. Perché è proprio qui, alla “Finanziera” dove, tra un piatto e l’altro – uno spada, una pasta allo scoglio, un totano ripieno - l’avvocato pianificava le sue strategie, tesseva la sua ragnatela. Più semplicemente, dispiegava un metodo. Che lui, l’avvocato Piero Amara, aveva imparato dal padre Giuseppe, Pippo per gli amici di Augusta.
Nel nome del padre
Già, Pippo. L’uomo, oggi avanti negli anni, vive in una villa all’ingresso di uno dei comuni del siracusano, Augusta, appunto, più colpiti dagli effetti velenosi di quel petrolchimico che ha sfamato migliaia di bocche, presentando poi il conto di un modello di industrializzazione selvaggia alle famiglie e ai figli degli operai.
«Ad Augusta si muore di cancro», denunciò qualche anno fa la scrittrice Catena Fiorello, che qui è nata come i fratelli Rosario e Beppe, scegliendo la forma innocente e straniante di una letterina a Babbo Natale e alla Befana. Anche se c’è poco di onirico nello sviluppo incontrollato dell’industria nell’antica “Megara”, che ha cancellato borghi di pescatori in cambio di fabbrica e inquinamento. Ebbene, il presidente dell’Area di Sviluppo Industriale della zona, nei ricchi anni Ottanta, è proprio Pippo Amara. Sulla carta è un geologo, un insegnante, ma è nei corridoi dell’allora partito socialista che Pippo è diventato «un intoccabile», per usare la definizione con cui le informative della Guardia di Finanza danno conto delle sue amicizie politiche. A cominciare da un padre della Repubblica come Giuliano Vassalli, ministro della giustizia sotto i governi Goria, De Mita e Andreotti.
Oggi, Pippo, vecchio leone del Psi, già sindaco di Augusta nel ’73, è malato. «Mio marito è a letto, non può parlare», dice la moglie al citofono. Ma sono ancora materia viva, in città, le storie che ne hanno costruito la leggenda locale. Qualcuno ricorda come annotasse, con precisione maniacale, in un ordinato archivio, i nomi di tutti i suoi interlocutori. O di come, una volta, avesse costretto un uomo politico che aveva chiesto di interloquire con lui a svuotare il sacchetto del pane che aveva con sé nel timore che all’interno nascondesse un registratore. Sospettoso, metodico e – raccontano ancora - spregiudicato. Come quando per giustificare davanti ai magistrati la presenza di ingenti somme di denaro contante in casa, spiegò che si trattava di “regali” fatti da persone a lui ignote alla moglie. Costretta poi, con qualche imbarazzo, a confermare in aula, la frottola che sarebbe valsa l’assoluzione al marito.
Divideva il mondo in amici e nemici, Pippo. E non faceva prigionieri. Chi gli si metteva di traverso veniva sciolto nel discredito. Accadde all’uomo, Massimo Carruba, che ebbe la ventura di succedergli come sindaco di Augusta. Un’onta intollerabile. Resa ancor più urticante dalla decisione di opporsi a un insediamento industriale caro a Pippo. Il povero Carruba, che avrebbe alla fine vinto una causa per molestie contro il vecchio leone socialista, sarebbe stato travolto, insieme alla sua giunta, da inchieste giudiziarie germogliate da accuse tanto fabbricate quanto infamanti: tentata concussione e mafia. E quando Carrubba ne sarebbe uscito completamente pulito, il tempo, per lui, era esaurito. «Avevo una carriera da deputato davanti ma dieci anni sulla graticola giudiziaria mi hanno rovinato. Ad Augusta non si muove foglia che Amara non voglia», dice oggi l’ex primo cittadino.
Piedi buoni
Aveva capito tutto, Pippo. La giustizia penale può diventare un’arma formidabile se addomesticata e guidata con sapienza per proteggere se stessi – negli anni della cosiddetta prima Repubblica, esce indenne da 18 procedimenti penali tra assoluzioni, archiviazioni e prescrizioni. Con un solo inciampo: una condanna per minacce a pubblico ufficiale - o per colpire un bersaglio da eliminare.
Può trasformare il falso in verosimile, il verosimile in vero. Ma anche il vero in falso. Era così nella Sicilia degli anni ’80. Sarebbe stato così anche in quella dei ’90 e dei duemila. Magari richiedendo una punta di maggiore sofisticazione come il giovane Piero, figlio di Pippo, dimostrava di saper garantire. Del resto, il ragazzo aveva dimostrato qualità precoci. Formidabile autostima, comportamento sobrio, una robusta dose di cultura resa affascinante da un’intelligenza vivace e un eloquio incline alla battuta.
Piero Amara era cresciuto tra le strade di Augusta, accompagnando il padre come un’ombra. Spesso anche durante le interviste che gli capitava di rilasciare. E senza preoccuparsi troppo dell’aspetto, con i pantaloni di una tuta e una giacca jeans. Aveva studiato al liceo classico Megara, quindi si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Catania, per poi approdare nel prestigioso studio Grasso della città ai piedi dell’Etna. Gli piaceva il calcio e aveva i piedi buoni del centrocampista, Piero. Ma quando lo sfiorò il treno che poteva portarlo al nord, a Torino, nelle giovanili della Juventus, aveva deciso di restare in Sicilia. Di fare l’avvocato. Per coltivare una scalata che avrebbe sicuramente richiesto più tempo per la consacrazione di un rettangolo di gioco, ma che prometteva di essere assai più longeva. E di fargli assaggiare il gusto inebriante del Potere. Quello con la maiuscola.

Come un laboriosissimo ragno, tra i ristoranti di Siracusa e Augusta, o al circolo nautico del comune, Piero Amara lavora in modo incessante alle sue relazioni. E i due gommoni, che tiene ormeggiati al pontile, non sono solo il manifesto di una passione per il mare, ma il passepartout per vincere le debolezze di clienti, amici, persone che contano. I legami che intreccia nel tempo vengono suggellati con la creazione di società e con comparsate a matrimoni. È così che si mette nel taschino il pubblico ministero Maurizio Musco (condannato per abuso d’ufficio in Cassazione a 18 mesi). È così che diventa testimone di nozze e collega di Andrea Campisi, figlio dell’ex procuratore di Siracusa Roberto Campisi. È così che sceglie come collega associato in studio Attilio Maria Toscano, figlio del magistrato Giuseppe Toscano. Ed è così che coltiva la frequentazione di Edmondo Rossi e Salvatore Torrisi, figli (acquisiti o naturali) dell’ex Procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi (condannato in via definitiva per abuso d’ufficio a 1 anno).
Va tutto a meraviglia. Almeno fino al 2006, quando comincia qualche seccatura. I carabinieri lo interpellano per una vicenda di abusivismo edilizio. Quindi viene coinvolto in una storia di false fatturazioni insieme alla moglie, Sebastiana Bona. Mentre, nel 2009, viene accusato di avere istigato Vincenzo Tedeschi, cancelliere del procuratore Alessandro Centonze (al tempo alla Direzione distrettuale antimafia di Catania), a fornire informazioni ancora coperte da segreto istruttorio. Vicenda per la quale verrà condannato a 11 mesi.
«Il giorno in cui uscì quella notizia — racconta il giornalista Gaetano Scariolo — nelle edicole di Augusta nessuno trovò il giornale. Tutte le copie le aveva fatte acquistare lui...». Del resto, nei corridoi della Procura di Siracusa il potere di Piero Amara dimostra di non aver subito neppure un graffio.
Peter Pan, Escobar e Zorro
Né potrebbe essere diversamente. Perché relazioni chiamano relazioni. Benemerenze chiamano benemerenze. È così che il potere di Amara lievita, insieme alle targhe degli studi legali su cui fa incidere il suo nome. A Roma e Dubai. Ma sì, in quei primi anni Duemila, quando ha poco più di 30 anni, l’avvocato di Augusta si racconta e viene raccontato come «un vincente». Nel 2002, è entrato a far parte del collegio difensivo dell’Eni e, guarda caso, si ritrova come “controparte” l’amico pm Maurizio Musco nel processo “Mare Rosso”, idealmente imbastito nelle acque di Siracusa che cambiarono colore per la presenza del mercurio, del cromo e del nichel.
Al fianco di Piero Amara, inseparabili, sono sempre i suoi compari: Salvatore Calafiore, avvocato come lui, e il giovane imprenditore Alessandro Ferraro. Nelle loro chat riservate, Amara si fa chiamare
Peter Pan ;
Calafiore, complici la fisionomia, un paio di baffoni spioventi e una passione divorante per il personaggio, è
Pablo Escobar , mentre Ferraro diventa Zorro .
Nulla a che vedere con il raffinato nickname adottato dal consigliere di Stato e “amico”, Luigi Caruso, che si è scelto un bel
Minchia69 .
Calafiore è di casa nella stanza del sostituto procuratore di Siracusa Giancarlo Longo. E la Guardia di Finanza — nell’inchiesta che scoperchierà il “Sistema Siracusa” — li riprende mentre si abbracciano, quando Calafiore usa il computer del magistrato, quando lo consola in un momento difficile, o quando si tratta di isolare qualche avvocato che ha capito tutto, qualche sindaco e qualche giornalista locale (come i cronisti de La civetta di Minerva) che continua a scrivere e non si fa gli affari suoi. Insistendo cioè sui rapporti con cui l’allora capo della Procura Ugo Rossi, per dirla con le parole dell’ispezione ministeriale che nel 2012 accerterà cosa accade in quelle aule di giustizia, «protegge legami familiari e sociali» a «dispetto e discapito» della «corretta ed imparziale gestione del proprio ruolo».
Va da sé che non ci sia vicenda che tocchino
Peter Pan
ed Escobar che non abbia le stimmate dell’opacità: l’inchiesta su Oikoten del gruppo Mercegaglia, quella sul centro commerciale Open Land, sulla Sai 8, sulla Fiera del Sud, o le 15 sentenze cui ha messo mano un altro amico magistrato, il giudice del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, Riccardo Virgilio.
Greco
Le elezioni farsa
Ed è così, in questo contesto, che Piero Amara scrive uno dei capitoli più incredibili della storia politica siciliana: le elezioni replay.
Accade infatti che, nel 2014, nei Comuni di Rosolini e Paceco, in provincia di Siracusa, una fetta della popolazione siciliana venga richiamata alle urne per ripetere il voto delle Regionali che si sono tenute due anni prima. Come se l’orologio si fosse fermato, in una surreale macchina del tempo, vengono iscritti ai seggi anche cittadini che, nel frattempo, sono morti. E questo mentre i vivi si trovano a dover scegliere sulla scheda (identica a quella di due anni prima) partiti che nel frattempo si sono estinti, dal Pdl a Futuro e libertà di Fini. Una farsa che, si sarebbe scoperto più tardi, è figlia della corruzione di un giudice amministrativo per una «somma non inferiore 30 mila euro» che, scrivono i pm, il candidato Pippo Gennuso aveva messo a disposizione per riconquistare il seggio attraverso quelle elezioni farlocche. Che giunge al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Raffaele De Lipsis «grazie alla mediazione di Pippo Amara e Giuseppe Calafiore». «Amara? È un traditore e lo sa anche lui», dice oggi Pippo Gianni, il deputato che invece, per quell’illecito, perse il seggio all’Ars. E che del golden boy augustano era in precedenza amico e cliente.
Calcio e affari
In ossequio al metodo paterno, nulla è impossibile da concepire e ottenere se si ha la “giustizia” come compare. E chi prova a mettere i bastoni fra le ruote viene travolto. Secondo un format che si muove su due gambe: dossieraggio e rivelazioni a orologeria.
Accade ad esempio nel 2007 quando due calciatori del Catania, il cui presidente è difeso da Amara, denunciano il club per mobbing. Venendo per tutta risposta indagati per una vicenda di calcio scommesse. Travolti dallo scandalo, i giocatori vengono trasferiti, prima di essere prosciolti. Come Amara. Anche lui prosciolto in una successiva inchiesta.
Come uno Zelig, l’avvocato entra ed esce dalle aule dei tribunali cambiando indifferentemente veste. Ora è avvocato, ora indagato, ora testimone. Il Sistema che ha messo in piedi comincia intanto a macinare “vittime” eccellenti. Per lo più politici e amministratori di ostacolo ai suoi affari e per questo scaraventati nel tritacarne di inchieste penali sollecitate ad arte e quindi pilotate.
Emblematico il caso di Sai 8, società lombarda chiamata a gestire il servizio idrico in provincia di Siracusa. L’ex presidente della Provincia Nicola Bono, dopo il suo insediamento, vuole vederci chiaro su un affidamento che — a suo avviso — è privo delle garanzie necessarie circa la disponibilità delle risorse da parte dell’azienda aggiudicatrice. Bono dà un ultimatum ad adempiere alla Sai8 ma, proprio alla vigilia della scadenza del termine, viene iscritto nel registro degli indagati a seguito di una intercettazione in cui due imprenditori, che parlano fra di loro, rivelano che il presidente della Provincia aveva brigato per fare assumere un suo uomo nella dirigenza della Sai 8. Bono si dimette dalla guida dell’assemblea dei soci. E nel salotto della sua casa di Avola oggi ricorda: «Finii indagato all’improvviso per tentata concussione su fatti che ruotavano attorno a una società nella quale lavorava il figlio della moglie del Procuratore, Ugo Rossi. Quest’ultimo, l’ingegner Torrisi, successivamente divenne direttore della Sai8. Fui scagionato dopo un paio d’anni, ma quanta sofferenza ». Ebbene, chi c’era fra i legali della Sai8? Piero Amara, naturalmente.
Le pressioni
D’altra parte, come si diceva, il rapporto tra Amara e il vertice della Procura di Siracusa è d’acciaio. Le intercettazioni delle inchieste che, a un certo punto scoperchieranno il verminaio, rivelano che persino i pubblici ministeri di quella Procura e i parlamentari che provano a sollevare la testa (come l’onorevole Sofia Amoddio), non hanno vita facile. Accade ad esempio che Amara e Calafiore decidano di mettere pressioni al capo della Procura di Siracusa Francesco Paolo Giordano, e di riflesso ai suoi sostituti, minacciando un intervento di Cosimo Ferri, deputato e magistrato, gran Visir della magistratura del nostro Paese che, negli anni, si era costituita nel cosiddetto “Sistema Palamara”. «Ma glielo deve dire? Cosimo... qua ci vuole qualcuno che lo fa cagare di piu?», dice Longo non sapendo di essere intercettato. «No, ma io ci vado», risponde Calafiore. «Si deve far cagare di piu? di quanto lui si caghi con questi scemoniti», continua Longo insultando i colleghi della procura di Siracusa. «Io ci vado e gli dico... Procuratore — prosegue Calfiore — stiamo predisponendo un’interrogazione parlamentare... senza cazzi». Già, le intercettazioni sono chiare: «Ora però basta... ora finiamola... ora facciamo una cosa... loro vogliono giocare? Allora io gioco libero (…) domani sto andando alla Procura Generale e vi denuncio tutti — prosegue Calafiore — inizio da Lucignani, finisco con Grillo... dopo di che? sto facendo predisporre un’interrogazione parlamentare... e pretenderò? di comprendere se qui si contrattano affitti dentro questo ufficio... dopo di che? mi compro tre giornali perché i soldi ce li ho... e faccio un articolo ad uno... diventerà un terreno di guerra... il Vietnam».
Gli inquirenti segnalano «la capacità di Calafiore» nell’organizzare «campagne diffamatorie particolarmente penetranti nei confronti dei magistrati» che gli mettono i bastoni tra le ruote. Si concretizzano in un «abbozzo di dossier», in un «esposto» e in una «denuncia» che convincono la Guardia di Finanza a parlare di «materializzazioni documentali».
È il gioco di Amara. Il suo metodo, appunto.
Vacanze di Capodanno
L’avvocato Amara trascorre il Capodanno 2014 negli Emirati Arabi. Con due amici, diciamo così, particolari: l’imprenditore romano e potente lobbista Fabrizio Centofanti e un sostituto procuratore di Siracusa, Giancarlo Longo, titolare di alcune indagini delicate. Partono tutti con le relative famiglie. La Guardia di finanza di Messina scopre che sul conto del magistrato non risulta alcun pagamento relativo a quel viaggio o al soggiorno nel lussuoso albergo di Dubai “Atlantis The Palm”. Chi ha pagato dunque?
Centofanti ha anticipato per tutti. E ha contribuito anche Amara. Diciamo pure a piè di lista, visto che non risulta un solo movimento sulla carta di credito del magistrato durante il suo soggiorno all’estero. La vacanza, insomma, va alla grande. Così bene che l’anno successivo si replica. Diversa location, pressoché identica formazione. Per il Capodanno 2015, Centofanti e Longo si ritrovano infatti con le famiglie al Gran Hotel Vanvitelli di Caserta. Amara non c’è. Ma quell’albergo riporta in qualche modo anche a lui. Perché è lì che vengono organizzate alcune iniziative culturali di un’associazione, la “A.pro.m.”, Associazione nazionale per il progresso del Mezzogiorno in Italia, di cui Amara è socio.
Nel 2016, per dire, Aprom organizza un convegno ad Anacapri al quale partecipa come relatore il magistrato Longo. Organizzatore del convegno e finanziatore dell’incontro è l’avvocato Calafiore, il socio di Amara, attraverso una società a lui riconducibile. E’ un cerchio che si chiude, scrivono i magistrati della procura di Messina quando leggono il primo rapporto della Guardia di Finanza sul “sistema”. Un quadro che «dà immediatamente contezza delle cointeressenze economiche fra gli indagati – scrive la procura diretta da Maurizio de Lucia – e consente di comprendere meglio la ratio delle aberranti attività che sono state poste in essere».

A denunciare il “Sistema Siracusa”, che è poi il figlio legittimo del “Sistema Amara”, il 23 settembre 2016, sono otto degli undici sostituti procuratori della procura di Siracusa. Mandano un esposto al ministero della Giustizia, alla Procura generale della Corte di Cassazione, ma anche alla Procura generale di Catania, per denunciare “gravi anomalie nella gestione di alcuni fascicoli pendenti presso la procura”. Scrivono: «Soggetti portatori di specifici interessi economici ed imprenditoriali dimostrano una preoccupante attitudine ad orientare a proprio favore l’azione della Procura, rendendo fondato il timore che parte dell’ambiente giudiziario non sia immune a tale forza di infiltrazione». I magistrati segnalano in particolare alcuni fascicoli che interessano molto Amara e il suo socio Calafiore.
L’indagine, istruita dalla Procura di Messina, vedrà Longo finire in manette insieme ad Amara nel febbraio 2018 con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e un patteggiamento a 5 anni dell’avvocato «per aver fatto parte di un’associazione a delinquere nata per favorire clienti di spicco di alcuni avvocati, avvalendosi di consulenti tecnici compiacenti e della complicità di Longo, remunerato con denaro e altre utilità» (il magistrato avrebbe ricevuto anche 80 mila euro).
Nel sistema Amara, nulla viene lasciato al caso. Il fidato pm Longo ricorre ai cosiddetti “fascicoli specchio”, che si autoassegna per poter monitorare quelli, originali, dei colleghi. Esistono poi i “fascicoli minaccia” nei quali vengono strumentalmente indagati, «con chiara finalità concussiva», soggetti “ostili” agli interessi di alcuni clienti di peso dell’avvocato Calafiore. E infine i “fascicoli sponda”, «tenuti in vita — ricostruiscono i magistrati — al solo scopo di creare una mera legittimazione formale al conferimento di consulenze, il cui reale scopo è “servente” rispetto agli interessi coltivati dai clienti di Calafiore e Amara». Insomma, una macchina perfetta. Almeno così immaginavano i suoi architetti.
Un giornalista per amico
Chi dunque non cede alle lusinghe, chi dimostra di non avere un prezzo, viene macinato. Negli ingranaggi della giustizia penale telecomandata, come abbiamo visto. Ma non solo. Il nostro avvocato “Peter Pan” usa per i lavori sporchi anche un giornalista. Soprattutto quando c’è da intimidire magistrati che ostacolano l’addomesticamento delle inchieste. Il tipo si chiama Pino Guastella e scrive per un periodico. Amara lo ha a libro paga di Amara. E non gli costa neppure una fortuna. Nel 2013, gli liquida 11.900 euro. Nel 2014, 20.876 euro. L’anno successivo, 13.654. Nel 2016, 10.700. Nel 2017, soli 1.976 euro. La causale dei bonifici è generica: «Acconto prestazione professionale». O anche: «Prestazione professionale per attività di internet reputation». Dove non si capisce se quella parola – “reputation”, reputazione – sia un modo diabolico per prendersi gioco e giocare con l’apparenza. La cifra di Amara.
Nella lista dei nemici cui spezzare le gambe c’è Marco Bisogni, il pubblico ministero di Siracusa che sta indagando su Amara e che ha compreso come si articoli il suo ruolo nella Procura e quanto estesa sia la sua rete di relazioni. Nel 2018, il giornalista finisce ai domiciliari, con l’accusa di associazione a delinquere. E sempre in quel 2018, in carcere finisce anche Amara. E lui prepara un nuovo abito. Quello del pentito. Che indossa con la stessa confidenza di quello del carnefice.
“Ogni essere umano ha un punto debole”
Due mesi dopo l’arresto, nel 2018, Amara è dunque davanti ai pm di Messina per offrire la sua confessione. “Ampia confessione”, sostiene lui, nel declinare a verbale il suo metodo. Che, all’osso, racconta così: ogni essere umano ha un punto debole. Va solo cercato e quindi sfruttato. E lo strumento è la capacità di intessere relazioni, di accumulare un patrimonio di informazioni da barattare, se necessario, e da mettere a sistema. Per arrivare prima degli altri. Per vedere ciò che gli altri non vedono. E la parabola del giudice amministrativo De Lipsis è esemplare. «A dicembre 2015 il magistrato va in pensione», spiega l’avvocato ai magistrati. Ed è un problema, perché De Lipsis è uno snodo importante della sua rete all’interno del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana. «Viene nominato un tale Mineo. E, allora, inizia la manovra di avvicinamento, viene trovato il punto debole». Che non sono le “femmine”, non è “il denaro”. Ma il senso di amicizia. «Mineo era molto legato all’ex presidente della Regione Giuseppe Drago, all’epoca gravemente ammalato». Amara apprende la circostanza dal suo Alessandro Ferraro. «Mineo chiese di aiutare Drago, che voleva tentare un intervento in Malesia. Fu fatto il pagamento, per assecondare Mineo». Attraverso una società, viene subito messa a disposizione una provvista di 115 mila euro per affrontare le spese sanitarie di Drago. E, immediatamente dopo, Amara passa all’incasso. «Incontrammo Mineo e parlammo di una camera di consiglio che era stata fatta sulla vicenda Open Land e Am Group e il giudice ci rivelò tutti i contenuti». Un incontro riservato, all’hotel Alexandra di Roma. «Io e Calafiore cercammo di convincerlo a riconoscere di più. Calafiore venne con degli appunti e scrisse addirittura un’ipotesi di sentenza. E gli atti furono consegnati a Mineo ». Al giudice veniva chiesto di favorire due imprese, controllate da alcuni costruttori, nei ricorsi intentati contro il Comune e la Sovrintendenza di Siracusa. Nel primo caso l’oggetto del contendere era un permesso per demolire e ricostruire il centro commerciale Fiera del Sud. Nel secondo caso, invece, il nulla osta negato alla Am Group che voleva realizzare 71 villette nella zona vicina alle mura dionigiane di Siracusa. Ballavano richieste di risarcimenti milionari, che l’allora presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Claudio Zucchelli dichiarò inammissibili.
Il “punto debole” di Riccardo Virgilio, ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Sicilia, all’epoca alla guida della quarta sezione del Consiglio di Stato, era invece un tesoretto che aveva accumulato in Svizzera. Una polizza vita, accesa presso il Credit Suisse di Zurigo, che, nel 2014, ammontava a 751 mila euro. Il giudice voleva trasferire la somma in una cassaforte sicura a Malta, per sottrarla al fisco. Amara aveva offerto la soluzione. Attraverso un fidato prestanome, era in grado di gestire i conti bancari della società di diritto maltese “Investment eleven ltd”. Dove verranno investiti i soldi del giudice. Anche in questo caso, alla prestazione aveva corrisposto un saldo. Amara aveva chiesto di “aggiustare” una serie di contenziosi che riguardavano i propri clienti. Di questi, 18 ne avrebbe aggiustati Virgilio, che non sarebbe poi finito in carcere solo perché andato in pensione nel 2016.
La loggia Ungheria
Lo svelamento del Sistema Siracusa, quella che il Procuratore generale di Messina avrebbe definito «una delle più gravi, estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate» nella storia della magistratura italiana, dovrebbe segnare la fine di
Peter Pan.
E con lui di
Escobar.
Ma non è così.
Il patteggiamento nell’inchiesta di Messina lo ha messo temporaneamente al riparo dal carcere e, nel suo nuovo abito di “pentito”, l’avvocato sposta l’epicentro del suo gioco sul continente. Il portafoglio di informazioni che custodisce, la forza di ricatto che ha accumulato negli anni su un pezzo di magistratura italiana (di cui conosce con esattezza i meccanismi, gli equilibri, e gli interna corporis), le munizioni che, da avvocato consulente di Eni, può utilizzare per mettere insieme, come farà, un gioco di tossico di depistaggi ai danni del colosso energetico, lo mettono, nel 2019, al centro delle indagini di un triangolo di Procure – Roma, Perugia, Milano – dove il suo ruolo di “impumone” – imputato e testimone – è in grado di fulminare chiunque maneggi ciò che mette a verbale.
Succede a Roma, dove diventa oggetto di una spaccatura all’interno della Procura (divisa sulla opportunità o meno di arrestarlo una seconda volta in ragione di misteriosi fondi, 25 milioni di euro, a suo dire ricevuti da Eni e di cui tuttavia non è in grado di giustificare compiutamente la ragione. Tanto da essere denunciato da Eni per truffa e citato per danni) che sarà uno dei detonatori della vicenda Palamara. Succede a Perugia, dove si propone come testimone di accusa dello stesso Palamara. Succede a Milano, dove è insieme testimone dell’accusa nel processo per le asserite tangenti Eni in Nigeria, ma al tempo stesso indagato per “costituzione di associazione segreta”.
Accade infatti – e siamo alla cronaca delle scorse settimane – che il 6 dicembre del 2019 Amara decida di sedersi dinanzi ai magistrati di Milano, il procuratore aggiunto Laura Pedio e il sostituto procuratore Paolo Storari. E di raccontare questa storia. «Facevo parte di una loggia massonica coperta. Formata da persone che ho incontrato attraverso persone di origini messinesi, dove questa loggia è particolarmente forte». A suo dire, la loggia si chiama Ungheria (dal nome della piazza di Rome dove abita un noto magistrato e dove alcune delle riunioni si sarebbero tenute) e ne fanno parte «giudici, avvocati, forze dell’ordine, alti dirigenti dello Stato». Una “Gladio” di colletti bianchi in grado di esercitare pressioni e condizionare nomine nei settori chiave delle istituzioni, di pilotare affari, appalti, incarichi professionali. Tra i quali, l’avvocato lascia scivolare anche quello dell’avvocato ed ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ci sarebbe da strabuzzare gli occhi, ma, per come la racconta nei verbali (saranno più d’uno), per la genericità dei riferimenti, le palesi incongruenze, la storia di Amara sta in piedi come un sacco vuoto. Più che una confessione, appare un cocktail di falso, verosimile, vero. Assemblato per portare fuori strada. O, meglio, sulla strada che solo Amara ha in mente. Insomma, una creatura figlia del suo metodo. La lista della loggia, infatti, che Amara ha promesso di consegnare non viene né verrà mai fornita. Il suo asserito capostipite è un magistrato deceduto e dunque non in grado di replicare. Soprattutto, la loggia non implicherebbe per i suoi iscritti alcun onere di mutuo soccorso, se non a sporadica richiesta. Come fosse la tessera di un club.
Sappiamo ormai cosa accada dopo. Quei verbali di Amara non hanno apprezzabili seguiti investigativi. Il Procuratore di Milano e la sua aggiunta Laura Pedio li ritengono radioattivi e dunque da maneggiare con estrema cautela. Il pm Paolo Storari – di avviso contrario e convinto che in quella cautela investigativa si debba leggere dell’altro – decide di consegnarli all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo. E, un anno e mezzo dopo, quell’incarto diventa materia di un dossieraggio violento. E oggetto di una fuga di notizie che esplode esattamente nel cuore del Consiglio Superiore della Magistratura. Con una funzionaria di quegli stessi uffici, Marcella Contrafatto, che finisce perquisita e indagata per calunnia.
Il tutto, in un intreccio di scelte inopportune, sospetti, faide interne alle correnti della magistratura. Un rompicapo, ma meglio sarebbe forse dire un bolo velenoso, che finisce , a due anni esatti dallo tsunami del caso Luca Palamara, per minare ciò che resta del prestigio e dell’autonomia del potere giudiziario.
Domande senza risposte
Quattro Procure oggi - quella di Milano che continua a procedere a carico di Amara per altri profili, quella di Perugia, che indaga sulla presunta loggia Ungheria, quella di Roma che procede sulla fuga di notizie della Contrafatto e che vede parte lesa il procuratore capo di Milano, Greco e quella di Brescia che ha messo sotto inchiesta il pm Storari e ha avviato verifiche conoscitive sulle presunte e asserite pigrizie investigative della Procura di Milano – sono chiamate a dare una risposta a una semplice domanda.


di Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo) Emanuele Lauria, Andrea Ossino Salvo Palazzolo, Conchita Sannino