la Repubblica, 23 maggio 2021
Sulla tassa di successione
NAZIONALE - 23 maggio 2021
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23/5/2021
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La tassa da Berlusconi a Letta
Il dilemma della successione
di Sergio Rizzo
Gli eredi Rovelli pagarono al Fisco 237,8 miliardi di lire. Somma oggi equivalente, per capirci, a 200 milioni di euro e spicci.
La mazzata più grande che forse si ricordi della famigerata tassa di successione non è sul passaggio generazionale di qualche colosso industriale, bensì sul gigantesco risarcimento di 980 miliardi di lire versato nel 1994 dall’Imi ai figli del “Clark Gable della Brianza”, nomignolo affibbiato allo spericolato imprenditore Nino Rovelli morto tre anni prima. Peccato soltanto che quel risarcimento non fosse frutto del lavoro, ma della corruzione. Dunque immorale.
Con quella mega tassa che rese almeno un briciolo di moralità alla maleodorante vicenda.
Morale o immorale, come la bollò Giulio Tremonti nel 1997? Questo il dilemma italiano che da sempre insegue l’imposta di successione: pilastro di ogni democrazia economica e motore dell’ascensore sociale. Che qui, però, è in avaria da decenni. Con quel dilemma ora deve fare i conti anche il segretario del Partito democratico Enrico Letta, che ha proposto di introdurla sui patrimoni più grandi per offrire un gruzzoletto di 10 mila euro ai diciottenni e si è beccato una scarica di contumelie. Da lui rispedite senza titubanze al mittente: «Vedo solidarietà diffuse a quell’un per cento più ricco del nostro Paese…».
In un Paese come l’Italia, dove un ministro come Tommaso Padoa-Schioppa fu quasi impalato per aver osato dire «Le tasse sono bellissime» mentre un presidente del Consiglio paragonava l’evasione alla legittima difesa venendo per questo osannato, la risposta a quella domanda è scontata. Qui nessuno paga volentieri le imposte, neppure sapendo che senza quelle non ci sarebbero scuole, ospedali, strade, treni e servizi pubblici. Figuriamoci una tassa sulle cose che si lasciano ai figli. E siccome la politica in Italia è soprattutto l’arte del consenso, la verità è che l’imposta di successione è scomoda per tutti. Anche per chi innalza, talvolta anche un po’ a sproposito, la bandiera dell’equità sociale.
Ricordate Luigi Di Maio? «È una tassa illiberale», disse nel 2019. E non aveva certo l’età per ricordare che nel 1981, prima che venisse al mondo, fu il Partito liberale e proporre l’esenzione totale dall’imposta per l’abitazione passata ai figli.
Già allora si potevano capire molte cose a proposito della presunta immoralità della tassa. Non c’è altro Paese dove l’80 per cento delle famiglie sia proprietario della casa in cui abita, e nel quale la proprietà immobiliare delle seconde e terze case sia così diffusa. Il problema, dunque, è in gran parte lì. Ovvero, la casa. E qui non c’è destra o sinistra. La prova? «Penso che si debba considerare l’eccezione di chi passa ai figli un bene che serve a riprodurre la vita. Ad esempio io ho una casa e la do ai miei figli e in questo caso le tasse vanno evitate», disse il leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti alla vigilia delle elezioni del 2006.
La tassa “immorale” era stata già abolita dal governo di Silvio Berlusconi, con l’opposizione che l’accusava di aver esteso il proprio conflitto d’interessi anche al fisco. Ma per anni, già prima di conquistare palazzo Chigi, l’abolizione della tassa sull’eredità era stato un cavallo di battaglia del Cavaliere. Così formidabile da aprire qualche crepa anche nel centrosinistra. Che puntualmente sfornò la riforma della tassa di successione a novembre del 2000, governo di Giuliano Amato, ministro delle Finanze Ottaviano Del Turco: fino a 350 milioni di lire non si pagava nulla.
Pochi mesi dopo arrivò Berlusconi e la spazzò via. Ma ecco di nuovo Prodi, e la giostra si rimise in moto. Soltanto, con maggiore difficoltà. Il futuro ministro della Giustizia Clemente Mastella garantiva: «Tranquilli, la tassa non si tocca». E Francesco Rutelli, alla vigilia della prima finanziaria, ebbe a giudicare l’imposta «anacronistica». Mentre Antonio Di Pietro auspicava che non fosse «punitiva». E Piero Fassino negò perfino che si chiamasse così: «Non è una tassa di successione, ma un’imposta di registro che c’è già oggi». Finì che la soglia di esenzione venne portata da 350 milioni di lire a un milione di euro. In attesa del prossimo ribaltone, che non c’è mai stato.
Berlusconi nel 2008 rivinse le elezioni promettendo: «Elimineremo la tassa di successione». Poi se ne dimenticò. Di tanto in tanto qualche innocua bordata. L’ultima al Politeama di Palermo, nel novembre 2017, prima delle elezioni dell’anno seguente.
E siamo a oggi. Nelle stesse ore in cui Letta proponeva di inasprirla moderatamente, attirandosi il sospetto di voler distruggere i patrimoni privati e mettere in ginocchio le imprese, le agenzie battevano la notizia che la famiglia di Lee Kun-hee, presidente della coreana Samsung passato a miglior vita sei mesi or sono, pagherà 11 miliardi di dollari di tasse di successione. In Corea del Sud l’imposta è del 60 per cento. Nonostante questa aggressione del fisco ai patrimoni coreani il Pil pro capite reale dello stato asiatico fra il 2001 e il 2021 è salito del 44,4 per cento, superando quello italiano. Che negli stessi anni si è ridotto invece del 9,4 per cento. Con un risultato peggiore di tutti i Paesi avanzati. Per inciso, vent’anni fa la tassa di successione è stata introdotta anche in Cina.
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