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 2021  maggio 22 Sabato calendario

Intervista ad Adam Duritz

“Negli ultimi anni ho vissuto in una fattoria nella campagna inglese. È lì che sono nate le canzoni che compongono Butter Miracle Suite One – spiega Adam Duritz, frontman dei Counting Crows, fra le migliori band Usa, all’ottavo posto nella classifica Billboards, con all’attivo 7 album e nominations ai Grammy e agli Oscar –. È stata la solitudine a spingermi a scrivere: ogni giorno percorrevo cinque o sei miglia a piedi, tra colline e campi, e l’erba alta. È una cosa strana, per uno di città. La maggior parte delle volte so esattamente dove mi trovo, grazie anche allo smartphone. Ma in quei giorni ho riflettuto sul fatto che nella vita non sempre puoi sapere dove tu stia andando e in quale direzione…”.Dopo 7 anni un nuovo disco a firma Counting Crows: 4 brani per 19 minuti. Perché non un album intero?
Non scrivevo da molti anni e riprendere è stata dura. Una cosa evidente sin dal primo brano, The Tall Grass, che si apre in modo semplice e quasi simile a un lamento. In quel momento era tutto ciò di cui ero capace. Ho iniziato a suonare i vari accordi che avevo nella testa, e poi ho cantato qualcosa tipo Bobby was a kid from round the town. Ho pensato: wow! potrebbe essere l’attacco di una nuova canzone! Da quel momento, accordi e melodie sono fioriti.
Come mai non ha scritto per così tanto tempo?
Non sono costante, anche se da ragazzo ho scritto ogni giorno, per anni. Ma quando entri a far parte di una band, la vita cambia. Si va in tour, si sta parecchio tempo lontani da casa e per me che non suono la chitarra quando compongo, ma il piano, è un problema, così faccio altro.
Cosa sarebbe diventato senza la musica?
(Sospira) Davanti a me vedo solo disoccupazione e fallimento. Mi considero fortunato, non avevo prospettive.
È stato uno dei protagonisti degli anni 90: che effetto fa assistere al revival di quel periodo?
È facile e allo stesso tempo divertente dare un nome a una generazione o a un nuovo movimento, ma in realtà non significa niente. È vero, la gente si sta reinteressando a quel periodo, ma è una cosa che avviene per quasi ogni epoca. A me, per dire, sono sempre piaciuti i pantaloni a zampa di elefante, e non li ho mai tolti perché era difficile trovarli negli anni 90.
Non si era mai tolto neppure i dreadlocks
I rasta, la barba lunga, avevano quasi fatto dimenticarmi qual è il mio volto e avevo l’esigenza di vedermi chiaro. Certo, quando la mia ragazza mi ha visto senza dread si è spaventata a morte, non riusciva a riconoscermi. Ma ancora oggi sono entusiasta di potermi lavare i capelli mettendo la testa nel lavandino. Per 30 anni mi ci volevano sei ore per asciugarmi i capelli, ora invece non riesco a passare davanti un lavandino senza metter sotto la testa.
Mr Jones è il brano che vi ha consacrato come band.

È un pezzo di cui vado fiero, ispirato dalla figura del papà del mio amico bassista Marty Jones. Suo padre, David Serva, è stato uno dei pochi chitarristi americani di flamenco in grado di imporsi a Madrid, dove decise di trasferirsi. Quando tornò negli Stati Uniti per un anno, ebbi l’occasione di conoscerlo. In quel periodo era in tournée col suo complesso di flamenco a San Francisco e una sera andai con Marty a vederlo. Fu uno spettacolo incredibile, suo padre era un chitarrista eccezionale. Dopo il concerto, con la band andammo in giro tutta la notte per locali, ubriacandoci. Seduto, in un angolo di un bar, scorsi Kenney Dale Johnson, il batterista della band di Chris Isaac, circondato da tre ragazze. Pensai: noi non riusciamo neanche ad avvicinarci a una ragazza e lui ne ha tre tutte per sé. In quel momento decisi di diventare una rockstar. Tornai a casa, scrissi il testo di Mr Jones, un pezzo che parla di sogni, di quanto sia bello sognare, e di come un sogno che si realizza possa esser diverso da come lo si era immaginato.
Che impatto ha avuto con il successo?
Quella degli anni 90 è stata la decade più strana della mia vita, sono riuscito a ottenere tutto quello che ho sempre sognato in breve tempo. Non avevo la minima idea di come convivere con quel successo. Agli inizi ero terrorizzato, ma come in tutte le cose, serve il tempo per abituarsi. Tutt’oggi ammetto di vivere situazioni di disagio legate alla fama.
I fan si lamentano perché dal vivo stravolgete alcuni vostri cavalli di battaglia. E lei in certi brani sembra annoiato…
Il concerto migliore è quello in cui esegui le canzoni che in quel momento ti va di suonare, ma capisco la gente che ha voglia di ascoltare le nostre canzoni di maggior successo. A volte, però, evito di cantare un pezzo tutte le sere, per non arrivare al punto da odiarlo. Ma se ce n’è uno che non mi stanco mai di fare è A Long December!