Corriere della Sera, 21 maggio 2021
Il lambrusco dei soviet
Nell’aprile del 1965, Vladimir Ermakov, corrispondente italiano della «Pravda», si reca a Cavriago, la «piccola Pietroburgo italiana», paese in provincia di Reggio Emilia. Che viene così descritto dal giornalista: «È una stretta strada asfaltata, gira prima a destra, poi a sinistra, ai due lati si stendono stretti filari di vigna. All’orizzonte, come da un barattolo senza fondo, si vede la cerchia dei monti». Siamo a metà de La trionferà (Einaudi), il nuovo libro di Massimo Zamboni, musicista e scrittore, che da quelle parti ci è nato nel 1957.
L’autore ci schiude una porta dopo l’altra su un viaggio lungo un secolo nella sua Emilia, che sa di rane fritte e di lambruschi che spumano nel bicchiere. «Bella regione l’Emilia (…). Anche sul viso degli uomini, delle donne (…) sembra di cogliere una nota di fierezza e di soddisfazione che altrove non c’è», disse Palmiro Togliatti, ricorda Zamboni. Parole che inorgoglivano «i primi coloni comunisti».
Cavriago, «paese di spiriti ardenti e disordinati», città da sempre poco incline alla sudditanza, dove c’è un busto in bronzo di Lenin regalato dall’Urss, come riconoscimento del loro sostegno alla causa della grande utopia del Novecento. A Cavriago nel 1888 fu inaugurato il funerale civile, al suono della Marsigliese, ma qui fermava anche la linea ferroviaria Reggio-Ciano, la «prima al mondo a essere costruita da una cooperativa».
Molti uomini e donne da queste parti «non solo non hanno visto mai il mare, ma alcuni di loro forse nemmeno la città vicina». Ma quando si parla di partito, non occorre nemmeno specificare quale: lo sguardo metaforico dei cittadini attraversava «l’Europa e arrivava fino alla lontana Russia, dove c’è una rivoluzione che infiamma le speranze». I compagni di Cavriago vogliono che si sappia assolutamente che loro sono d’accordo con il programma del Soviet di Russia. Fanno arrivare sulla scrivania di Lenin una copia dell’«Avanti!» in cui inneggiano al leader. È gente «scristianata» che dietro la testata del letto non ha un crocefisso, ma un’immagine di Garibaldi. Per la cittadina «rimbombano fra le vie gli scotmaj, i soprannomi che valgono più dei cognomi», Pein, Poch, Ciola, Burich, Marluch, il Principe, e che alla fine fanno sembrare tutti parenti.
I frati d’assalto
Il cardinale Lercaro li mandava in campagna a bordo di Fiat 1100 a convertire la gente
Una terra ricca «per la predicazione, ma poverissima per le condizioni di vita», specifica Zamboni. Non c’è spazio, né forza per i sospiri. Non è un caso – scrive l’autore – che qui non esiste la traduzione dialettale per la parola nostalgia. Alcune parole le si avvicinano, parole come magoun, nel senso di peso sullo stomaco, ma «della nostalgia comprende solo algos, dolore, manca il nostos, il ritorno».
Già questo potrebbe essere uno spunto per un’altra storia ancora da raccontare, più immaginifica (come quelle contenute nel suo libro precedente, La macchia mongolica), di un paese senza nostalgia. Ecco, La trionferà è un libro pieno di spunti, bagliori, improvvise accensioni, che può essere interpretato come un saggio, un romanzo, un racconto, una sceneggiatura, una pièce teatrale a più voci, un monologo. In ogni caso il testo appassiona anche chi non ha la politica che gli pulsa nelle vene. Anche chi magari non la pensa come i protagonisti del libro che dicono: «Se non saremo noi a farla trionfare (…), tra duecento, trecento, mille anni, vedrete: la trionferà».
Nel 1921 comincia il lento assalto squadrista a Cavriago, «offese spicciole in preparazione di un disegno più vasto». Zamboni con un lungo lavoro di ricerca («Tra le cose certe, la più incerta è il passato, io sento tutto il potere e l’incanto dei documenti, nella loro fissità, spesso più vivi della voce degli uomini vivi», specifica) ricostruisce con perizia nomi, fatti, date, il dopoguerra, il 1968, Pertini, l’«Avanti!» e «l’Unità», i fenicotteri – gli attivisti che tessevano le reti di collegamento e che per riconoscersi piegavano in quattro una copia del «Corriere della Sera» —, i frati d’assalto del cardinal Lercaro, che armati di megafono sulle loro Fiat 1100 scorazzavano per le campagne per «convertire» i contadini. E poi Guareschi che per le sue storie «non ha dovuto inventare granché, solo trascriverle», tanto erano bizzarre. Alcune sono divertenti, e qui Zamboni evoca sullo sfondo l’umorismo surreale emiliano dei Cavazzoni, Nori, Benati, Cornia. Per esempio nelle due pagine che descrivono un compagno, «svelt c’ma un furet, svelto come un furetto», che si arrampica sul Gran Pino, che per altezza supera quella del campanile, per legarci un’enorme bandiera rossa che fa impazzire di rabbia il prete.
O nella storia del 6 gennaio 1963, quando viene inaugurato il dancing Caprice di Cavriago, probabilmente il primo locale notturno al mondo gestito da un partito comunista. Dove si programmavano concorsi di bellezza, gare di ballo – «primo premio una pelliccia di visonetto, ed altri premi per il valore di un milione, tutte immancabilmente vinte dalla formidabile coppia Bolondi e Cavazzini». Alla fine la realtà, raccontata con tanta lucidità poetica da Zamboni, arriva a superare quella divertente leggenda, che circola da decenni, secondo la quale un papà super-compagno avrebbe chiamato i suoi tre figli maschi Rivo, Luzio e Nario.