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 2021  maggio 21 Venerdì calendario

Intervista a John Malkovich

Inserito nella cornice dantesca quello di John Malkovich potrebbe definirsi un gran rifiuto: mentre ancora si vendono i biglietti per il suo Inferno, spettacolo previsto a dicembre al milanese Teatro Arcimboldi con le musiche di Gabriel Prokofiev, l’attore, 67 anni, confessa con la sua voce languida e profonda (è lui a chiamare dal Canada per parlare di Valley of the gods di Lech Majewski, in sala dal 3 giugno), che quella pièce non la farà.
Nella sua carriera da 130 film e innumerevoli spettacoli teatrali non le si può rimproverare mancanza di coraggio e sperimentazione.
Perché ha detto no a “Inferno”?
«Le spiego. Lo spettacolo penso sia fatto molto bene. Lavoro spesso con musicisti classici su questo tipo di pièce ibride, una sorta di teatro, opera, teatro da camera, mi piacciono. Ma dopo aver letto e studiato l’adattamento da Dante sono giunto alla conclusione, anche se so che Roberto Benigni lo ha portato con successo a teatro, che il linguaggio di Dante sia troppo denso e difficile per un orecchio moderno.
Stavolta non ho trovato il modo di rendere quel linguaggio con chiarezza, regalando il giusto impatto emotivo. Soprattutto pensando allo spettacolo in inglese in Italia, sapendo che la comprensione sarebbe complicata, semplicemente perché non so nemmeno se il mio inglese sia all’altezza di un testo così denso. È un progetto fantastico, ma ho deciso di non realizzarlo perché non sono sicuro di come risulterebbe nel contesto teatrale. Ho fatto pièce con testi densi, penso a Report on the blind da Ernesto Sabato. Stavolta ho pensato che non sono capace e non lo farò. È troppo difficile, senza elementi visivi, diciamo così».
Il suo rapporto con la cultura italiana è forte. Ed è condiviso con il regista di “Valley of the gods”, Lech Majewski, che nel film cita “La porta del paradiso” di Lorenzo Ghilberti e ricostruisce la Fontana di Trevi.
«Qualche anno fa, durante un viaggio in Polonia, un amico mi ha mostrato i film di Lech: mi ha impressionato il suo stile visionario. Mi piaceva il contrasto tra questo magnate che vive isolato e il mondo ancestrale dei Navajo. Quanto all’Italia sono stato fortunato: Bernardo, Michelangelo, Gabriele, Liliana, Paolo, incontrarli è stato un grande regalo».
Bertolucci, “Il tè nel deserto”.
«Ho amato Bernardo. Era spiritoso, volutamente infantile, un regista con un intelletto straordinario. Malgrado il suo spiacevole destino, che lo ha costretto alla sedia a rotelle, riusciva sempre a farmi ridere. L’ho chiamato per incontrarlo prima del set di The new pope. Purtroppo stava appena uscendo dall’ospedale per l’ultima volta, stava per morire, anche se non me l’ha detto. Invece mi ha raccontato qualcosa di divertente, così veloce che mi ci è voluta una settimana per capire cosa intendesse. Ed è riuscito a farlo proprio quando era sull’orlo della morte. È il ricordo più nitido che ho di lui».
Il set con Sorrentino?
«Una volta mi hanno chiesto di confrontare Antonioni con Sorrentino: Michelangelo ha un’incredibile capacità di inserire le persone in una geografia. Ma Paolo può mettere i personaggi in una geografia entro cui ciò che hanno bisogno di fare, o devono fare, è ovvio e inevitabile. Ha questa fantastica abilità naturale. Non vedo Liliana Cavani da anni, spero stia bene».
Sta girando un film.
«Ottimo. Ho lavorato bene con lei in Il gioco di Ripley. Il suo umorismo è sottovalutato, sa quel che vuole ma è aperta al dialogo. Con Salvatores ci accomuna il background teatrale.
Educazione siberiana avrebbe meritato più attenzione. Ma è la vita».
Com’è stato vivere a Roma nel periodo di “The new pope”?
«Malgrado il caos e la massa di turisti conserva una bellezza e un pathos indescrivibili. Abitavo vicino al quartiere ebraico e mi rifugiavo spesso in una chiesa piccola con la scultura di un Cristo in agonia. Stare lì mi dava una grande commozione».
Tornerà a dirigere un film?
«No e non ho neanche progetti teatrali. A volte dirigo perché non so spiegare cosa vorrei, come in Danza di sangue. Mi sarebbe piaciuto dirigere alcuni film che ho prodotto,
Noi siamo infinito o Ghost World. In Le relazioni pericolose non avrei tanto voluto esserci quanto dirigerlo, ma Stephen Frears è stato brillante».
È sul set di “Space Force”.
«Sì, stiamo girando la seconda stagione qui a Vancouver. Con Steve Carell e gli attori mi diverto. È un bel momento. Sto bene, come mia moglie e i miei figli. Non posso chiedere di più. Sto bene e progetto il futuro».