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 2021  maggio 21 Venerdì calendario

Viaggio a Lod


LOD – «Sono stati gli arabi ad attaccarci, hanno iniziato a protestare con armi e bastoni, hanno incendiato le nostre auto, le case e anche le sinagoghe». «Sono stati gli ebrei, i coloni arrivati armati dagli insediamenti in Cisgiordania a provare ad attaccare le nostre moschee, a sparare sui nostri giovani, sono loro che hanno ucciso Moussa Hassouna il nostro primo martire».
Arriverà la tregua dei missili, ma non ci sarà pace fra i popoli di Israele. Le ferite aperte dagli scontri fra ebrei-israeliani e arabo-israeliani non si richiudono. Continuerà a correre il veleno che in questi anni si è infiltrato nei corpi e nelle menti di due popoli con lo stesso passaporto, quello israeliano. Un veleno che nessuno aveva visto arrivare così micidiale.
Lod è una città nel centro di Israele, a 20 minuti da Tel Aviv. Un sobborgo povero e scalcinato della capitale. È il comune entro cui sorge Ben Gurion, l’aeroporto di Tel Aviv. In Israele gli arabi israeliani sono 1,9 milioni su circa 10 milioni di cittadini. Quelli che vivono in questo paesone sono stati fra i primi a scendere in strada per protestare. Assieme a quelli di Ramla, di Acri, di Jaffa e Umm al Fahm. «A Lod 30 anni fa gli ebrei erano l’80% cento della popolazione, e gli arabi il 20. Oggi gli arabi sono il 70%, ma per noi ebrei vivere con loro era normale. C’era rivalità, ma non c’era timore», dice Ayelet Chen, una professoressa ebrea, 44 anni e 4 figli. Quella dove parliamo è la “mechina”, una scuola premilitare in un compound dove ci sono altre scuole e un asilo per i bambini. È stato uno dei primi luoghi ebraici devastato dai manifestanti arabi. Adesso ci sono i volontari arrivati dal Kibbutz Benjamin in Cisgiordania, con le armi per proteggere e i mattoni per ricostruire.
Tutte le versioni concordano: i primi giovani arabi sono scesi in strada quando hanno visto le immagini della moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme, violata dai poliziotti della polizia di frontiera israeliana, con i candelotti lacrimogeni che finivano anche nella sala della preghiera. «Ero al telefono con una mia amica, stavamo organizzando le cose da fare all’indomani, quando ho sentito urla e voci dalla strada…», dice Michal Avram 32 anni, 4 figli, arrivata a Lod anni fa da Gerusalemme. «Nel mio palazzo vivono famiglie ebree e palestinesi. Ho sentito gli stessi vicini arabi che mi aiutavano a portare la spesa, con cui discutevamo dei figli e delle loro scuole, indicare ai teppisti che quelle erano le auto degli ebrei da bruciare… eravamo terrorizzati, nel palazzo non c’è un rifugio per difenderci dai razzi, dovevamo scendere nei rifugi con gli arabi, siamo andati in strada. Urlavano Netanyahu cane, «col sangue e col fuoco libereremo la Palestina».
Quella notte oltre alla scuola militare del quartiere di Ramat Eskol sono state lanciate molotov contro alcune sinagoghe. È partito quello che in diretta alle tv il sindaco ebreo di Lod ha definito urlando «un pogrom, ormai è tutto fuori controllo, la polizia non controlla la piazza».
In poche ore dalla Cisgiordania, dagli insediamenti in terra palestinese in cui fronteggiano ogni giorno gli arabi con le armi, sono arrivati nella notte decine e decine di coloni. Squadre armate che hanno iniziato ad organizzarsi per dare la caccia agli arabi. Il 12 maggio una di queste squadre di vigilantes ha incrociato una grossa manifestazione araba: da lontano hanno iniziato a sparare mentre quelli lanciavano sassi. È morto Moussa Hassouna, un palestinese-israeliano, la prima vittima a Lod. Poche ore, e gli arabi hanno fermato un’auto per strada, c’era dentro Yigal Yehoshua: lo hanno tirato fuori e lo hanno bersagliato di pietre. Era un elettricista amato da tutti, che girava nel paese facendo lavori in case ebree e palestinesi. È morto 4 giorni più tardi in ospedale: la famiglia ha donato i suoi organi. Un rene anche a una donna palestinese.
«Quella notte i coloni armati sono arrivati attorno a questa moschea, davanti alla chiesa di St. George», racconta A., uno studente arabo di ingegneria meccanica all’università di Tel Aviv: «Volevano attaccare la moschea, li abbiano respinti. Hanno cercato di incendiare altre moschee, ma noi le abbiamo protette tutte, abbiamo dormito giorno e notte davanti alle moschee, anche chi non era molto religioso era qui con gli altri».
Gli ebrei di Lod accusano lo sheikh, la prima autorità musulmana: «Invece di calmare gli animi, ha aizzato, ha detto «uccidete gli ebrei diventate martiri». I palestinesi di Lod accusano i coloni arrivati da fuori: «Ci hanno sparato addosso da lontano, appena ci vedevano sparavano, e la polizia non faceva nulla». Nelle ore più violente, mentre gli scontri impazzavano in città miste senza il controllo della polizia, i deputati dei partiti della destra israeliana hanno invitato alla guerra. Itamar Ben Gvir, deputato del partito razzista “Potere ebraico” ha detto in tv «la polizia non fa nulla, dobbiamo difenderci». E perfino il ministro di Polizia Amir Ohana da Tel Aviv ha detto «i cittadini che hanno armi devono lavorare per le autorità, per neutralizzare le minacce e i pericoli». A, lo studente di ingegneria, ha paura di rientrare a Tel Aviv, «sanno che sono di Lod, mi odieranno». Ha paura Michal, la madre di 4 figli: «Come faremo a tornare a vivere nel mio palazzo? Ci odiano». La guerra dentro è davvero quella che fa più paura a Israele. È la guerra dell’odio.