La Stampa, 20 maggio 2021
Tutto su Camus
Dieci anni prima di Lo straniero, un grande scrittore che certamente Camus ha conosciuto, André Malraux, negli anni Trenta già notissimo presso i lettori più dello stesso Gide, ha scritto La condizione umana, un libro sulle rivoluzioni in atto in Asia, e, prima ancora, I conquistatori, che a me pare più bello. La «condizione umana» questi scrittori la affrontavano di petto e non cercavano scorciatoie, astuzie. E non c’erano solo loro, ché di questo parlavano Kafka da Praga, Joyce da Dublino, Faulkner dal Sud degli Stati Uniti; c’era una dimensione, che è sempre appartenuta alla grande letteratura, di inquietudine filosofica: l’eterno chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Julien Gracq, un altro grande contemporaneo di Camus, diceva che la letteratura o ci parla di queste cose, magari con dei pretesti narrativi, oppure non è che intrattenimento, volgare intrattenimento. E oggi dal volgare intrattenimento siamo sommersi. Per questo rileggere Camus fa una certa impressione, perché affronta le cose di petto. Nello Straniero è della condizione umana che si parla, della miseria dell’individuo, del suo affanno nel voler capire. Per capire chi siamo, e per esempio chi è lui, chi è Meursault, e la sua indifferenza fino a una qualche, e ancor vaga, pacificazione finale con sé stesso, ma non con Dio, proprio a partire dal fatto di aver provato a capire... «in qualche modo ho provato, mi sono interrogato, ho sfidato la mia/nostra mediocrità con un gesto peraltro orrendo, l’uccisione senza alcun motivo di un essere umano simile a me».
Nella Peste c’è qualcosa di più, un incubo collettivo, non individuale. E in questo fatto collettivo è la novità su cui Camus insiste e ragiona. Sulla nascita di una solidarietà, sul sentimento della comunità. Rieux e i due o tre medici amici si interrogano e dicono: «perché?», «quale la causa?». C’è un virus, certo, che si diffonde per la sporcizia delle fogne, per il calore – la sua origine può essere in qualche modo individuata –, ma il problema che resta è il perché. Perché il mondo è fatto come è fatto? Se c’è un Dio, perché l’ha fatto così?
Se c’è un Dio, è, come dice Iago nell’Otello di Verdi, e prima ancora in Shakespeare, «un Dio crudele», un Dio che ha creato un mondo tremendo, pieno di violenza e di morte. Perché la violenza – la lotta darwiniana per la vita – c’è tra le piante, c’è tra gli animali, e c’è tra gli uomini, anche se hanno cercato di superare tutto questo, perché dotati di coscienza, di intelligenza, di riflessione, di progettazione, ma non hanno saputo vincere la parte del male, domarla. Diceva Elsa Morante che «la storia è uno scandalo che dura da diecimila anni» e forse ancora di più. E che continua, che non si è mai fermata, che va avanti tremendamente, e con una natura che a volte si vendica tremendamente, anche delle nostre manipolazioni, delle nostre violenze nei suoi confronti. La peste si interroga anche su questo, si interrogano il medico, il prete, le persone comuni.
La peste racconta di fatto una sventura che arriva e passa, ma che forse, in altri modi, ricomparirà, ma che può lasciarci di buono il sentimento della solidarietà. La differenza con oggi è che questa solidarietà intorno non la si vede. Vedo le leggi, vedo il trionfo del capitalismo più brutale che è quello delle banche, il trionfo della finanza... Il capitalismo ha approfittato del coronavirus per fare la sua ultima rivoluzione a danno del genere umano.
Sull’altro versante abbiamo Internet e l’età del narcisismo, come dice Christopher Lasch, con una generazione di giovani che accettano una situazione di servitù volontaria, di complicità volontaria con i loro dominatori e manipolatori. Anche a causa di genitori e «fratelli maggiori» e di presunti educatori professionali, per esempio nelle università, che hanno rinunciato a proporre un rapporto diretto, indispensabile, tra il pensiero e l’azione. Tutti, grazie allo sfogo di Internet, credono di poter dire la loro su tutto, credono di pensare. Dicono: «io penso che…», «io dico che…», «tu sei un cretino», «tu mi piaci», e credono per questo di esistere. Credono di pensare e di contare, nel mentre pensano e si comportano come vuole chi dirige il gioco, chi comanda. Siamo tutti schiavi consenzienti di un capitalismo sempre più brutale, ma sempre più abile. Perché da una parte ha l’economia, che è diventata finanza, e dall’altra ha la cosiddetta comunicazione, che chiama anche cultura, che è la veicolazione dei suoi modelli o delle sue imposizioni, la manipolazione del consenso.
Ci sono lezioni che da Camus si continuano a imparare. La prima è quella di osare guardar le cose in faccia, non mentire e soprattutto non mentire a sé stessi, non raccontarsi favole, e invece cercare ostinatamente (Leonardo parlava di «ostinato rigore») di capire, di ragionare sul mistero e sul dono che è la vita e sulla tragedia che è la Storia, e che è la violenza della Natura, specie se non rispettata.
Tutto questo Camus ha saputo farlo egregiamente, lo ha sempre fatto. Lo straniero si riconcilia con sé stesso nel momento in cui accetta e il mistero e la tragedia. Il mondo resta impenetrabile, ma lui in qualche modo lo ha compreso. Si può riuscire in qualche modo a riconciliarsi con il mondo, ad accogliere quel che il mondo può darci attraverso la solidarietà con altri esseri umani, «confederati», come voleva Leopardi. —