la Repubblica, 20 maggio 2021
Intervista a Roberto Vecchioni (parla di Battiato)
Roberto Vecchioni è uno dei padri della canzone d’autore, l’unico che ha vinto Sanremo, il Festivalbar e anche il premio Tenco. Ma è anche, da sempre, un “professore”. Che ancora oggi insegna “Forme di poesia in musica” all’Università di Pavia.
Chi è per lei Franco Battiato?
«Non c’è un Battiato unico. Se devo dare una definizione direi che è uno dei rarissimi geni pluritematici che abbiamo nel mondo e che quindi sfugge a qualsiasi interpretazione».
In che senso?
«Nel senso che anche i più grandi geni musicali, e non solo, sono stati monotematici, hanno esplorato quasi sempre lo stesso argomento, la stessa costruzione melodica. Anche nella classica: Debussy, Schubert.
Grandissimi ma monotematici, l’unico pluritematico che mi viene in mente è Mozart. Ecco, Battiato ha provato tutto tranne forse il jazz».
Con lui avete anche in comune una lunga gavetta: quando vi siete conosciuti?
«Non ricordo esattamente la data: erano gli inizi degli anni Settanta a Forlì o a Cesena, di sicuro in Emilia Romagna. Ero stato chiamato a suonare a una festa in piazza e prima di me c’era Battiato. Tra l’altro era pomeriggio, eravamo entrambi quasi sconosciuti e non c’entravamo niente l’uno con l’altro. Lui era arrivato con un camion con dentro uno strumento gigantesco (il suo famoso sintetizzatore VCS3, ndr), che nessuno aveva mai visto prima. Inizia a suonare, ci saranno state duemila persone. Quando finisce, trenta minuti dopo, ne saranno rimaste 500. Non ci fu neanche un applauso: credevano che fosse una sorta di introduzione. A quel punto attacco io con delle complicatissime canzoni sui miti greci. Alla fine erano rimasti in venti. Non erano ancora pronti ( ride). Però credo che quei venti rimasti siano stati importanti perché da lì è partito tutto anche se poi ci sono voluti altri dieci anni».
Non vi siete persi d’animo...
«Io ero molto più fragile di lui, soffrivo per non essere capito, per gli insuccessi e poi anche per avere avuto un successo di cassetta di cui non mi importava niente come Samarcanda. Battiato invece era come se fosse invulnerabile, non gliene fregava proprio niente che una cosa non venisse capita. Non solo era convintissimo di quello che faceva ma aveva un’assoluta certezza interna del suo percorso e non aveva paura di niente».
Battiato però con “L’era del cinghiale bianco” e poi con “La voce del padrone” fa la famosa svolta “pop”: voi cantautori che cosa ne pensavate? Qualcuno gridò al tradimento?
«No, i cantautori erano più o meno tutti folli e pieni di problemi e complessi di tutti i tipi, io per primo.
Certo, magari qualcuno poteva provare un po’ d’invidia ma la maggior parte dei cantautori non si stupisce di niente e Battiato è sempre stato considerato un guru e un’eccezione. Tutti noi avevamo tematiche simili: Dylan, i francesi e così via. Per esempio, anche De André era un “monotematico”.
Altissimo, ma monotematico. Il tema che lo tormentava era quello del rapporto tra l’uomo e il potere. Per Guccini invece il tema era quello delle cose che se ne vanno, si perdono e non c’è più niente da fare: canzoni bellissime ma stavano dentro un mondo preciso. Battiato no, non era così: lui cercava risposte.
Risposte spiritual. Ovunque».
E a tutte le latitudini.
«Esatto. Tira fuori L’era del cinghiale bianco dopo aver letto Guénon che era uno storico delle religioni che guardava soprattutto alla tradizione occidentale. E poi invece passa al sufismo e all’Oriente, facendo tutto un altro viaggio. A un certo punto si innamora di Gurdjieff che gli fa capire quanto la musica non debba essere esplicativa ma interpretativa e soprattutto che deve suscitare piccole, continue controversie interne, emozioni che portano a qualcosa. E a quel punto, da Patriots in poi, si mette a fare dischi pieni di citazioni brevi, di frasi anche incomprensibili, in una sfida continua alla mediocrità, all’ovvio, allo scontato. Questa è una battaglia che non tutti hanno fatto ma lui sì: ecco, questa se vogliamo può essere una costante. Anche la sua stonatura è fantastica».
Stonatura?
«Io credo che la stonatura per Battiato fosse il raggiungimento di una perfezione, tanto che se dovessi dire in musica quanto sia stato grande, userei la nota più stonata e stridente possibile».
Anche qui un “oltre”.
«Sì, perché Battiato è al di là di tutte le perfezioni: lui volutamente cerca la stonatura in tutto ciò che fa per svegliare le coscienze».
Anche quando va in tv?
«Esatto. Basti pensare a quando vince Sanremo con la canzone di Alice, Per Elisa. Io ci vado con Chiamami ancora amore che è una canzone da Sanremo: c’è un inciso e un ritornello che arriva a tutti. Quando ci va Dalla con 4 marzo 1943 porta una storia, fantastica, che ti resta subito in mente. Invece Battiato, con quella cantante straordinaria che è Alice, porta una canzone completamente fuori dagli schermi dicendo “io sono qua, voi siete là” ma senza presunzione, come dato di fatto. In Italia abbiamo personaggi eccezionali ma così fuori dagli schemi ce ne sono solo due».
Chi è l’altro?
«Jannacci. Anche lui è un altro politematico che non ha mai seguito uno schema».
“Vincenzina e la fabbrica”.
«Quattro righe per un capolavoro».
Quali sono le canzoni di Battiato che più ama?
«È difficile. Ma se devo scegliere direi
Povera patria per la sua forza emotiva e La cura, che lui canta per la sua anima e tutti pensano che sia rivolta a una donna. Ma non importa: quando ho fatto un corso su Battiato i ragazzi mi dicevano: “Professore non capiamo che cosa dice. Però è bellissimo”. Ecco, questo è il suo mistero, questa è la sua magia».
Che cosa ricorda di più di lui?
«Le barzellette».
Davvero? Come erano?
«Battiato era sorprendente in tutto.
Uno pensa a un personaggio ieratico, forse musone, invece raccontava barzellette straordinarie. Surreali ovviamente: animali che parlano, cose così. Ridevamo in cinque, gli altri restavano esterrefatti».
Chi è il suo erede oggi?
«Nessuno. Il genio assoluto come Battiato non viene da nessuna strada e non indica nessuna strada».