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 2021  maggio 19 Mercoledì calendario

Intervista a Sergio Castellitto


 Sergio Castellitto è un Gabriele d’Annunzio al crepuscolo. Disilluso, isolato, eppure ancora ritenuto pericoloso dal regime fascista e perciò spiato. L’incontro con un giovane federale inviato a sorvegliarlo e con il quale nasce una forte empatia lo spinge a incontrare il Duce prima che si consumi il tragico sodalizio con Hitler. Il cattivo poeta di Gianluca Jodice (prodotto da Ascent con Rai Cinema) è in sala da domani (con 01). «È strano parlare di questo film fatto due anni fa, prima che vivessimo l’esperienza incredibile, crudele, straordinaria della pandemia. Ti ritrovi a racimolare i ricordi in modo diverso», spiega Castellitto.
Perché il cattivo poeta?
«È un ossimoro. Come si fa a essere cattivo e poeta? I poeti sono buoni, autorevoli e fragili. Quelli che ci insegnano le pieghe dei sentimenti e al tempo stesso sono soldati, coraggiosi, i primi a essere colpiti dalla pallottola per colpa dei loro versi. È stata una grande esperienza, non foss’altro per il privilegio di poter girare cinque settimane nel Vittoriale. Da attore la sfida è stata artigianale, in omaggio a D’Annunzio mi sono tagliato i capelli a zero, gesto non da sottovalutare perché è come offrire la propria testa, il cranio, ciò che lo qualificava visivamente».
Qual è il D’Annunzio del film?
«Quello in un momento decisivo della propria esistenza, vicino alla morte. D’annunzio, trionfatore in vita, viene raccontato nell’ultimo anno, quando è più fragile, abbandonato anche dal fascismo che aveva governato e usato facendosi dare tanti soldi, che gli avevano dato volentieri anche perché era un modo per chiuderlo là dentro. Le sue riflessioni nell’ultima parte della vita non piacevano al regime. Credo non ci sia stato artista più detestato, vilipeso nel dopo fascismo, classificato come poeta del regime. Non è andata proprio così. Giordano Bruno Guerri a chi gli ha chiesto se D’Annunzio fosse fascista ha risposto “no, era d’annunzista”: è il fascismo che ha preso le sue idee».
Che significa raccontarlo in questo momento storico?
«Se penso a D’Annunzio, con un paragone che può apparire sorprendente, mi viene in mente Pasolini. Può sembrare paradossale e Pasolini detestava D’Annunzio, come tutti gli intellettuali del dopoguerra, da Elsa Morante a Arbasino. Ma i due sono accomunati da una capacità di fare del proprio corpo, della propria vita la vera grande poesia che hanno scritto.
D’Annunzio diceva che bisognava fare della propria vita l’opera d’arte.
Poi in tempi di regime, ma anche nelle democrazie zoppe come la nostra, gli artisti sono sempre stati usati dal potere. In maniera studentesca direi che gli artisti dovrebbero essere sempre contro chi comanda, a prescindere. Ciò che significa oggi D’Annunzio è al di sopra delle discussioni politiche, appartiene alla cultura, alla grande letteratura, appartiene a tutti, grazie e anche a causa delle sue straordinarie contraddizioni».
Gli artisti possono sposare una causa, come il disegno di legge Zan.
«Condivido l’intervento di un uomo di sinistra che stimo, Luca Ricolfi: l’idea che, fatta salva la legittimità di ciò che quel ddl esprime, non possiamo nascondere che contiene delle contraddizioni. Purtroppo da un po’ di tempo c’è stato un trasferimento a destra di quelli che sono stati i grandi valori della sinistra. Esiste una destra capace di parlare alla pancia delle persone in maniera diretta, concreta. Più di quanto, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, oggi la sinistra sia in grado di fare».
Qual è la fotografia dell’Italia che esce dalla pandemia?
«Ogni generazione ha vissuto un evento storico che ha squassato la psiche di un Paese e di un popolo. Da ragazzo ho pensato che il terrorismo fosse la guerra che spettava alla mia generazione, nel senso di trauma, violenza e sangue. Quella di mio padre ha subito la Seconda guerra mondiale, mio nonno la Prima. La pandemia è la guerra dei giovani di oggi. Mi ha fatto soffrire la notizia che 200 mila giovanissimi hanno abbandonato la scuola e non è detto che ci torneranno. La differenza la faranno le occasioni, la disparità economica. Spero che la pandemia ci lasci una coscienza, una memoria».
Suo figlio Pietro dalla Mostra di Venezia al David ha fatto un gran percorso. So che lei avrebbe voluto un ruolo in “I predatori”.
«Si è ben guardato dal farmelo fare.
Ero disposto anche a lavorare gratis, che per me è gravissimo».
Come ha preso questo rifiuto?
«I figli li ami in modo incondizionato, anche se non è detto che li stimi. Puoi non ammirare il loro comportamento e difenderli, certe vicende ultime ci fanno riflettere su padri che difendono figli e figli che si fanno difendere dai padri. Sono orgoglioso di Pietro, mi piace come fa questo lavoro, l’ironia, l’arroganza elegante che i giovani devono avere. Mi piace la sua fragilità. Mi diverto a essere anche diventato il padre di Pietro Castellitto.
Avere figli che si sganciano è un buon segno, vuole dire che qualcosa l’hai seminato bene».
Ha finito il film da regista “Il materiale emotivo”. Ora?
«Mai avuto sogni. Tra le cose che accadono, scelgo la più emozionante.
Cerco di far diventare sogno ciò che accade. Nell’ultimo anno ho avuto la fortuna di incontrare Edoardo De Angelis con cui ho fatto Natale in casa Cupiello, ho appena finito Non ti pago e tra qualche giorno inizierò il set di Sabato, domenica e lunedì. Ho ritrovato il piacere della recitazione come gioco: l’esperienza che hai non la imponi come un monumento, la appoggi sul tavolo come una mancia. Per il futuro, quel che succede succede».
La canzone di Battiato che ha accompagnato di più la sua vita?
«Naturalmente La cura. Quale uomo della mia generazione non l’ha dedicata alla donna amata? Chi non l’ha fatto ha perso un’occasione».