ItaliaOggi, 19 maggio 2021
Intervista a Roberto D’Alimonte
Non basterà a Giorgia Meloni avere un punto in più di Matteo Salvini per diventare premier. In Italia non c’è l’elezione diretta del presidente del consiglio. Piuttosto saranno decisive le credenziali europee». Roberto D’Alimonte, politologo dell’università Luiss, fondatore del Cise, il centro italiano studi elettorali, si dice per niente stupito dell’avanzata di Fratelli d’Italia ai danni della Lega, «già a marzo un sondaggio che ho fatto la dava oltre il 19%», e invita a guardare anche alla situazione sul territorio: «Al Sud la Meloni era già al 24%, primo partito, aveva scalzato anche i 5stelle». E il Pd che resta a navigare intorno al 20%, più sotto che sopra, anche con la segreteria di Enrico Letta? «Da solo non va da nessuna parte, a livello nazionale ha bisogno dei 5stelle per giocarsela. A livello locale invece l’alleanza con il Movimento non è strettamente indispensabile, i sistemi elettorali sono diversi, grazie al doppio turno può farcela in diversi comuni senza doversi caricare i 5stelle». Le tensioni tra Pd e M5s per le comunali, spiega D’Alimonte, «se gestite con intelligenza, non pregiudicheranno l’alleanza che si farà tra due anni per le politiche. Devono superare a nottata...».
Domanda. Ormai in due punti percentuali ci sono tre partiti. L’ultimo sondaggio Swg dà la Lega al 21%, che perde ancora qualche decimale, Fratelli d’Italia secondo partito al 19,5%, in salita dello 0,4% rispetto alla settimana precedente, e il Pd al 19,2, che perde ancora qualcosina. I 5stelle staccati dal vertice sono al 16,8%.
Risposta. Viviamo una situazione di grande incertezza ma si vanno delineando alcuni punti fermi. Il sistema partitico si è strutturato negli ultimi mesi secondo uno schema di quadriglia bipolare: quattro partiti in due poli. In ciascuno di questi poli ci sono rapporti difficili tra i protagonisti, ma i rapporti di forza tra di loro sono più o meno stabili.
D. Fratelli d’Italia continua ad erodere consensi alla Lega.
R. Non sono stupito. Già a marzo scorso per il Sole24Ore avevamo fatto un sondaggio ampio, 2 mila intervistati, che dava Fdi al 19,1%. C’è una indubbia tendenza alla crescita della Meloni, ma ora siamo nell’ambito di una variazione percentuale a livello nazionale che è contenuta nell’arco dell’errore statistico. C’è un indubbio mutamento in campo, ma non va neppure sovrastimato e non si possono meno che mai tirare conclusioni.
D. Da dove trae la sua forza Fdi, passata dal 4 per cento delle politiche del 2018 al 19%?
R. Il partito è in crescita un po’ ovunque, ma è interessante e decisivo il dato del Sud dove a marzo scorso nel nostro sondaggio era già primo partito al 24%, scalzando i 5stelli e staccando di 10 punti la Lega.
D. La leadership del centrodestra ora è contendibile?
R. La Meloni da quando ha sfondato il 10% è diventata un competitore agguerrito di Salvini, ora sono entrambi lì, intorno al 20%, e bisogna vedere cosa succede con il governo Draghi e la ripresa economica per capire chi capitalizza di più, uno al governo, Salvini, l’altra all’opposizione, la Meloni.
D. La Meloni ha detto di essere pronta a fare il premier.
R. Se il cdx dovesse vincere non le basterà avere un punto in più di Salvini per diventare premier. A pesare sulla Meloni non è tanto il rapporto con il passato, ma con il presente e il presente è l’Europa. Quando l’emergenza pandemica sarà finita, quale sarà la politica fiscale dell’Unione e quale atteggiamento avranno Salvini e Meloni verso l’Europa? Una Ue che non potrà continuare a dire che il fiscal compact non si rispetta e che si può continuare a fare debito. Questo è il punto cruciale che deciderà chi diventerà presidente del consiglio. In Italia non sono gli elettori a scegliere il premier, non c’è l’elezione diretta. La nomina spetta al presidente della repubblica. E che sia ancora Sergio Mattarella o Mario Draghi o Marta Cartabia non cambia: le credenziali europee sono fondamentali.
D. Anche Salvini non ha un tasso di europeismo alto.
R. Salvini ha però una componente europeista al suo interno, penso a Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia, e comunque ha appoggiato il governo Draghi, il che è già un buon viatico. Lo ha fatto assieme a Forza Italia, l’altra gamba del centrodestra anche se con una forza elettorale minoritaria, del 5-7%. Si è creato così una sorta di sottopolo europeista all’interno del centro-destra che potrebbe far pendere a favore di Salvini la scelta del presidente della repubblica per la nomina a premier.
D. Anche Pd e 5stelle vivono una convivenza complicata.
R. Sì, un rapporto reso difficile da due fattori. Il primo, la situazione caotica dei 5stelle, con faide interne, guerre in tribunale e uno Statuto che non si può modificare perché non si ha l’elenco degli iscritti, in mano a Davide Casaleggio, che dovrebbero poi votarlo. Intanto il leader in pectore, Giuseppe Conte, resta azzoppato, senza avere un incarico ufficiale.
D. Il secondo fattore?
R. L’ostilità della base dei due partiti a una collaborazione strutturale. Che finquando è a livello centrale funziona, ma nelle periferie non decolla.
D. Perché quello che si fa a livello di governo centrale non si può fare nelle periferie?
R. Perché il Movimento è nato in opposizione all’establishment locale del Pd. Tra le élites locali dei due partiti in molti comuni i rapporti sono difficili. Oggi il M5s prende più voti al Sud che al Nord ma non dimentichiamo che è nato nella rossa Emilia Romagna in contrapposizione ai dem, un’opposizione quasi antropologica.
D. Se fallisce l’alleanza per le comunali di città come Milano e Roma non rischia di esplodere anche l’alleanza nazionale?
R. Non riuscire a guidare le alleanze sul territorio è indubbiamente un problema sia per Conte che per Letta. Ma se riusciranno a gestire le tensioni con intelligenza queste non pregiudicheranno l’alleanza politica nazionale che si farà tra due anni. Come si dice a Napoli, devono superare a nottata...
D. Il Pd senza 5stelle può vincere?
R. Il Pd a livello locale può competere in molti casi anche senza accordi formali con i 5stelle.. Per esempio a Roma Roberto Gualtieri, ammesso che vada al ballottaggio, può farcela anche senza un accordo pre-elettorale con i pentastellati, il sistema del doppio turno lo permette. E sull’altro versante, quello del centrodestra, i candidati sono deboli. Lo stesso motivo per cui a Milano Beppe Sala può farcela dopo che Gabriele Albertini si è ritirato.
D. E a livello nazionale?
R. Il Pd con il suo 20% non va da nessuna parte. Per sperare di giocarsela ha bisogno e ha bisogno dei 5stelle, se il sistema elettorale non cambia.
D. Un’alleanza pre-elettorale o post-elettorale?
R. Questo dipenderà dalla legge elettorale con cui voteremo, con il maggioritario e i collegi uninominali è ovvio che lo schieramento va dichiarato prima. Con il proporzionale ci si rivede tutti in parlamento.
D. Enrico Letta aveva annunciato al suo insediamento alla segreteria dei dem la volontà di riprendere in mano il Mattarellum.
R. Ma deve fare i conti con il partito proporzionale che sta nel Pd. E fuori dal centrosinistra a Forza Italia il proporzionale, con il suo 5-7% di voti, non dispiace affatto. Lo stesso vale per i CinqueStelle.
D. A non volerlo sono rimasti insomma solo Lega e Fdi.
R. Di Fratelli d’Italia sono certo. Del resto anche la Lega con il maggioritario ha buoni margini per vincere nel centrodestra. Ma rischia di vincere arrivando secondo, dopo la Meloni. L’alternativa sarebbe di contarsi con il proporzionale e poi dover fare un governo tra forze diverse, sull’esempio dell’esecutivo Draghi. Ma non credo che Salvini si farà tentare dal proporzionale. La cosa più probabile è che il sistema elettorale non venga modificato.