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 2021  maggio 18 Martedì calendario

Processi in tv

Il talk si sta mangiando la realtà, riducendo tutto a chiacchiera. Attraverso una congerie di parole, il talk cambia la nostra percezione della realtà, altera la costruzione di un sapere sociopolitico, complica, drammatizzandola, la gerarchia delle necessità. Tutto era cominciato con lo sport (Biscardi), con la rappresentazione del dolore (Costanzo), con la politica (Funari). Nel tempo, il talk, con le sue regole e i suoi rituali, ha inghiottito tutto: la cronaca nera, lo spettacolo, la medicina, ora persino la magistratura.
Il talk show è parola che si fa spettacolo, come vuole tradizione drammaturgica: è una necessaria semplificazione delle idee, è una fatale iniezione di populismo, è un esplicito incitamento alla forte contrapposizione.
La domanda che possiamo porci è questa: se un tema delicato come quello della magistratura, con gli stracci che volano, con le correnti che si danno battaglia, finisce in un talk dove si urla (Mario Giordano, tanto per fare il primo esempio che viene in mente), siamo sicuri che il pubblico capisca qualcosa? Siamo sicuri che per i magistrati la tv sia il posto giusto per dibattere o non sia invece un modo per regolare i conti?
Come dicono gli psicoterapeuti televisivi, oggi tutto è «narrazione», «storytelling». Certo, tutto è narrazione, ma nelle logiche del talk questo significa che una parola vale l’altra e l’unica strategia è quella di spararne tante (di parole), in una escalation sempre più ridondante, in modo tale che l’ultima faccia dimenticare quelle precedenti. Imbastire una narrazione significa lisciare il pelo al pubblico, fingere di «fare opinione»: è il genere che diventa attore principale.
Serializzando un argomento (ogni settimana una puntata), si minano le istituzioni stesse su cui si regge una comunità.
Immagino lo sconforto della ministra Marta Cartabia.