il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2021
Miliardari buoni e miliardari cattivi
Negli ultimi vent’anni la quantità di miliardari nel mondo è cresciuta di più di cinque volte e i patrimoni più ingenti del pianeta hanno superato quota 100 miliardi di dollari. Da più o meno lo stesso tempo ho iniziato il mio monitoraggio delle grandi ricchezze, convinto che costituiscano un indicatore dello stato di salute delle società.
Prima del Covid, l’aumento delle disuguaglianze era già diventato un problema politico molto serio, che evocava lo spettro di una rivolta di massa contro il capitalismo. Con la pandemia la tendenza si è rafforzata. Nell’ultimo anno, con l’obiettivo di tenere a galla l’economia mondiale, le banche centrali hanno iniettato 9 trilioni di dollari nelle economie di tutto il mondo. Gran parte di questo stimolo è finito sui mercati finanziari, e da lì nelle tasche degli ultra-ricchi. In 12 mesi, la ricchezza totale dei miliardari di tutto il mondo è aumentata da 5 a 13 trilioni di dollari: è l’incremento più significativo mai registrato da quando esiste la classifica annuale di Forbes.
Nella lista del 2021 la popolazione di miliardari risulta cresciuta di quasi 700 unità, per un totale record di oltre 2.700 soggetti. Il boom più forte si è verificato in Cina, dove sono nati 238 nuovi miliardari in un anno (circa uno ogni 36 ore) per un totale di 626. Negli Stati Uniti i miliardari aggiunti sono stati 110, per un totale di 724 super-ricchi nel paese. I primi dieci miliardari di Usa e Cina hanno visto crescere in un solo anno i loro patrimoni di cifre che fino a poco tempo venivano considerate impossibile da realizzare in una vita intera. Il fondatore di Tesla Elon Musk, per esempio, è passato da 25 a oltre 150 miliardi di dollari.
Queste cifre alimentano le ire dei progressisti americani come Elizabeth Warren e Bernie Sanders, che vorrebbero introdurre una tassa sui miliardari. Joe Biden non si è unito a loro, ma ha comunque iniziato a indicare questo boom di miliardari durante la pandemia come un motivo per tassare di più i ricchi e ridistribuire la ricchezza alla classe media.
Ho iniziato ad analizzare la lista dei miliardari di Forbes partendo dal mio paese, l’India, negli anni 2010. In quel momento stava crescendo un sentimento di rabbia generalizzata contro la nuova élite: sebbene l’India sia relativamente povera, i patrimoni dei miliardari erano cresciuti di una cifra equivalente a oltre il 17% del Pil e la maggior parte del denaro era concentrato nelle mani di un gruppo ristretto di famiglie di industriali avvezzi al capitalismo clientelare.
Da allora ho elaborato un sistema per prevedere quali nazioni sono più a rischio di rivolte anti-ricchi. Il rischio che non è mai stato così alto come adesso. Il mio sistema permette anche di sapere da dove viene la ricchezza dei miliardari e a valutare il loro contributo all’economia.
Questo il metodo adottato. Per individuare l’élite miliardaria di ogni paese calcolo la ricchezza dei miliardari in proporzione al PIL dei loro paesi. Per identificare le élite più radicate calcolo la quota di patrimonio che proviene da fortune ereditate (che passano di solito molto più sottotraccia rispetto a quelle “self-made”). L’aspetto più importante della mia analisi è la possibilità di distinguere tra élite miliardarie “buone” e “cattive”, in base alla quota di ricchezza che proviene da settori generalmente puliti e produttive, come la tecnologia e la manifattura, o all’opposto da settori predatori come l’immobiliare o il petrolio. Indubbiamente il sistema è ingeneroso con molti magnati del petrolio o dell’immobiliare, ma questi settori sono generalmente meno produttivi, più inclini alla corruzione e sono guardati con più sospetto nella società, perciò quando diventano troppo grandi fanno aumentare le probabilità che nel paese si verifichi di un’esplosione di populismo.
Nel 2010 la classe dei miliardari americani appariva molto meglio ben bilanciata di quella che avevo trovato in India. Questo confermava la reputazione degli Stati Uniti come terra del capitalismo del cosiddetto “trickle-down”. La ricchezza dei miliardari Usa era circa il 10% del Pil, in linea con la media degli altri paesi ricchi, e, aspetto ancor più rilevante, una parte relativamente piccola di queste fortune erano ereditate o generate in un settore economico “cattivo”, secondo i criteri descritti sopra.
Nel 2015 il quadro è radicalmente mutato. La ricchezza dei miliardari era salita al 15 per cento del Pil. Quello stesso anno Bernie Sanders è stato il primo candidato presidenza degli Stati Uniti a fare esplicitamente campagna contro la “classe dei miliardari”, e dopo di lui il “billionaire-bashing” è diventato abbastanza diffuso nella politica Usa.
Nel 2020 i guadagni del mercato azionario sono andati in gran parte a beneficio delle aziende tecnologiche e ai loro fondatori, di solito miliardari che si erano fatti da soli. Nello stesso anno la quota di ricchezza miliardaria detenuta dai rampolli delle famiglia bene e dai “cattivi miliardari” è scesa ulteriormente. Perciò negli USA i miliardari “buoni” sono ancora la maggioranza, ma la scala pura della ricchezza miliardaria degli Stati Uniti è cresciuta a dismisura nel giro di un anno ed è schizzata a quasi il 20% del PIL.
Ho concentrato la mia analisi su 10 economie emergenti e 10 economie sviluppate. La prima constatazione è stata che la percentuale di miliardari sulla popolazione negli Usa non è la più alta al mondo, ma è la seconda. La prima, a sorpresa, è quella della Svezia, che molti progressisti ancora descrivono erroneamente come il paese dell’utopia socialdemocratica realizzata. Negli ultimi cinque anni il numero di miliardari svedesi è salito da 26 a 41 (10 di questi sono spuntati proprio l’anno scorso) mentre la loro ricchezza complessiva è balzata a quasi il 30 per cento del Pil nazionale (prima era il 20).
Una tendenza simile si sta verificando in Francia, dove la ricchezza dei miliardari era già cresciuta con costanza negli anni fino all’11% del Pil, ma con lo scoppio della pandemia nel 2020 è schizzata al 17% del prodotto interno lordo francese. Nel Regno Unito, al contrario, la percentuale sul Pil è rimasta relativamente stabile, attestandosi al 7% l’anno scorso.
Come si vede, gli stereotipi (il capitalismo selvaggio anglosassone contro quello più bilanciato di Francia e Svezia) non aiutano molto quando si tratta di miliardari. La Svezia ha abbandonato da tempo l’agenda socialdemocratica in tema di tassazione dei patrimoni e delle eredità, perché era impraticabile. Le imposte sui patrimoni non hanno generato le entrate attese, e gli svedesi non avevano alcun desiderio di allontanare dal paese i fondatori delle loro aziende più apprezzate e più competitive a livello globale. Quando il miliardario fondatore di Ikea, Ingvar Kamprad, è morto nel 2018 un giornale ha scritto che era il secondo svedese più popolare dopo il re Bjorn Borg.
Allo stesso modo, la Cina non è più così statalista come pensano gli ammiratori del “capitalismo di Stato” cinese. Non solo la crescita della popolazione miliardaria del paese nel 2020 non ha avuto uguali nel resto del mondo, ma l’incremento delle ricchezze complessive dei miliardari è stato di quasi 1 triliardo di dollari, arrivano a rappresentare il 15 per cento del Pil nazionale. Peraltro, la lista dei miliardari cinesi riflette il declino della vecchia economia dominata da aziende di materie prime e immobiliari e la parallela ascesa di una nuova economia guidata da settori come l’e-commerce e la farmaceutica.
È la provenienza del denaro a dirci se questo fenomeno sarà stabilizzante o destabilizzante per i paesi. In Cina, come negli Stati Uniti, la maggior parte dei nuovi miliardari sta sorgendo in settori dinamici e altamente produttivi come il tecnologico e il manifatturiero. Tra le 10 principali economie emergenti del mio studio, la Cina è virtualmente alla pari con Taiwan e Corea del Sud per quota di ricchezza miliardaria proveniente da industrie “buone”: circa il 40% del totale dei patrimoni miliardari, quasi il doppio della media dei paesi emergenti.
La Cina sembra tuttavia vivere il conflitto su come armonizzare l’esistenza di questi vasti patrimoni con quel che resta dei valori maoisti. Prima del 2010 a Pechino vigeva una sorta di regola non scritta per cui nessun patrimonio poteva superare i 10 miliardi di dollari. I magnati che si avvicinavano a quella soglia tendevano a ritrovarsi improvvisamente ridimensionati dal governo. Con il decollo delle grandi aziende di internet, però, il patrimonio netto degli imprenditori che le avevano fondate è aumentato improvvisamente, senza dare il tempo di reagire alle autorità. Così il tetto dei 10 miliardi di dollari è stato sforato per la prima volta nel 2014.
Solo sette anni dopo, in Cina i deca-miliardari sono più di 50. Pechino sta facendo grandi sforzi per tenere a freno i tycoon dell’internet cinese, come Jack Ma e il suo Ant Group (valore netto di 48 miliardi di dollari), ma non può spingersi oltre una certa soglia, perché è proprio sul fronte della tecnologia che può sperare di raggiungere l’obiettivo di scalzare gli Stati Uniti dalla vetta dell’economia mondiale.
Il rapporto degli Stati Uniti con i miliardari non è meno complesso. Il paese è stato fondato sulla premessa che ogni cittadino americano possa diventare favolosamente ricco, perciò è sempre stato riluttante a prendere di mira chi era riuscito a realizzare il sogno americano. Salvo, nei periodi di estrema disuguaglianza come l’inizio del XX secolo, additare i magnati come nemici pubblici, com’è successo a John D. Rockefeller. Fino a poco tempo fa, comunque, i miliardari americani erano molto più spesso ammirati che disprezzati, complice anche il fatto che molti di loro fossero “self-made man”, filantropi o entrambe le cose, come Bill Gates e Warren Buffett.
Complessivamente sembra che le fonti della ricchezza dei miliardari americani siano meno discutibili di quelle dei loro colleghi in giro per il mondo. Un terzo di queste proviene da settori “buoni”: è il tasso più alto del mondo (il secondo classificato, l’Australia, si ferma a circa il 25 per cento). Inoltre, solo il 25 per cento della ricchezza dei miliardari Usa deriva da eredità familiari, quando la media globale supera il 40 per cento, e il tasso di Svezia, Francia e Germania è di ben il 60%.
I patrimoni statunitensi vanno valutati nel contesto. I 177 miliardi di dollari che fanno di Jeff Bezos l’uomo più ricco del mondo possono sembrare sbalorditivi a un primo sguardo. Ma la sua ricchezza è lo 0,8% del Pil Usa, la metà della quota detenuta da Rockefeller nei suoi tempi migliori. I Rockefeller non mancano negli altri in altri paesi, invece: ce ne sono cinque in Svezia, due in Messico, Francia, India e Indonesia e uno in Spagna, Canada, Italia e Russia. In cima alla lista c’è il re spagnolo della moda Amancio Ortega, il titano delle telecomunicazioni messicano Carlos Slim e, in Francia, Bernard Arnault. Ognuno di loro detiene una ricchezza equivalente a più del 5% del Pil del suo paese.
Miliardario – Paese – % sul PIL – Valore assoluto
Amancio Ortega – Spagna – 5,3% – 77 mld $
Carlos Slim – Messico – 5,3% – 63 mld $
Bernard Arnault – Francia – 5,1% – 150 mld $
R Budi Hartono – Indonesia – 1,8% – 20 mld $
Alexei Mordashov – Russia – 1,7% – 29 mld $
John Rockefeller – USA – 1,6% – 331 mld $
(Fonte: Morgan Stanley, Bloomberg, Forbes, FMI. Dati di aprile 2021)
L’entità di questi patrimoni e il loro numero crescente sta facendo montare una rabbia politica contro l’intera classe dei miliardari che non distingue tra chi apporta risultati o contributi alla società e chi no. Nell’ultimo anno negli Usa i fondatori dei giganti tecnologici americani sono stati trascinati davanti al Congresso accusati di essere monopolisti avidi e onnipotenti. La campagna di Sanders per le primarie presidenziali 2020 si basava tra le altre cose sull’argomento che la somma dei redditi della metà più povera delle famiglie americane è inferiore a quelli dei tre uomini più ricchi degli Usa: Gates, Bezos e Buffett. Sempre più spesso, nella politica americana, “grande” è diventato sinonimo di “male”, e probabilmente non è una coincidenza che le proposte fiscali dei progressisti di tassare pesantemente i grandi patrimoni ricevano oggi il sostegno anche di una parte dei repubblicani.
L’esperienza della Germania offre un contro-esempio significativo. Anche per i miliardari tedeschi gli ultimi anni sono stati molto incoraggianti. Il numero patrimoni a nove zeri è aumentato da 29 a 136 l’anno scorso, ma la ricchezza totale della categoria è cresciuta poco rispetto al Pil. La maggior parte dei miliardari tedeschi mantiene un basso profilo, evita i superyacht a Saint Tropez e nessuno di loro sembra destinato a diventare un novello Rockefeller: il patrimonio medio dei primi 10 è di 23 miliardi di dollari, rispetto ai 105 miliardi dei colleghi americani. Molte grandi fortune tedesche sono ereditarie, ma spesso derivano da “Mittelstand”, aziende a conduzione familiare piccole e medie che sono la spina dorsale dell’industria tedesca e una fonte di orgoglio nazionale. Per questo in Germania non esiste un equivalente del movimento anti-miliardario americano, che del resto potrebbe essere molto più grande se non fosse tenuto ancora a freno dalla sempreverde popolarità dei molti miliardari “buoni”.
Molti millennials guardano per esempio a Elon Musk come a un eroe visionario, che sta costruendo un’economia alimentata a batteria e ci salverà dal riscaldamento globale. Ma non tutti i suoi 53 milioni di follower su Twitter apprezzerebbero il fatto che il suo patrimonio si è moltiplicato per sei in un anno.
C’è da chiedersi se la Svezia continuerà ancora a lungo a considerare i suoi vasti patrimoni ereditari come fondamentalmente buoni, ora che il suo status di terra dei nuovi Rockefeller si è consolidato dopo il 2020. La Francia di recente ha abrogato le tasse sulle grandi ricchezze, ma potrebbe essere costretta a tornare sui suoi passi se consideriamo che i suoi miliardari sono poco popolari, spesso vivono di fortune ereditate e pochi di loro operano in settori “buoni”. Dall’altro lato della Manica, la classe dei miliardari britannici sembra più bilanciata, ma il paese ha comunque il secondo peggior risultato per numero di miliardari “cattivi”, dietro l’Australia, dovuto essenzialmente al boom delle società immobiliari.
La Russia è stata a lungo, nelle mie analisi, la capitale mondiale dei patrimoni “cattivi”. Di recente però ha perso lo scettro a favore del Messico. Anche se l’élite miliardaria messicana è minuscola in confronto, contando solo 13 membri, nel 2020 la quota di ricchezza miliardaria “cattiva” del paese è cresciuta del 75 per cento, lasciando la Russia al secondo posto tra le grandi nazioni in via di sviluppo (col 60 per cento, ovvero tre volte la media delle nazioni emergenti). Per un’economia non particolarmente grande, la lista dei miliardari russi è sorprendentemente lunga: quasi 120 nomi, e alcuni studi hanno mostrato che la stragrande maggioranza di loro vive a Mosca e dintorni, nonostante la loro reputazione è nota in tutto il mondo. Tra le nazioni emergenti, la Russia ha i peggiori risultati per dimensione di patrimoni dei miliardari e per quantità di asset “cattivi”, però ha dalla sua un basso tasso ricchezza ereditata. Anche se va considerato che il paese è entrato nel sistema capitalistico solo dopo la caduta dell’Unione sovietica ed è ancora troppo presto perché si possano consolidare generazioni di magnati.
In Russia finora le autorità sono state in grado di soffocare il malcontento sociale contro gli ultra-ricchi, mentre non si può dire lo stesso in Messico, dove la rabbia per le disuguaglianze ha contribuito a portare al potere il presidente di sinistra Andrés Manuel López Obrador.
All’estremo opposto della scala troviamo il Giappone, che potrebbe essere perfino troppo virtuoso. Il paese ha molti miliardari “buoni” e pochi “cattivi” e relativamente poca ricchezza ereditata, ma il numero assoluto di ultra-ricchi è esiguo e la loro ricchezza complessiva non supera il 4% del Pil nazionale. I dati potrebbero indicare una stagnazione a lungo termine. In ogni caso, è certo che la quasi invisibilità dell’élite miliardaria mette il Giappone al riparo dalle rivolte sociali.
Tutte queste tendenze economiche e sociali erano già in atto prima del Covid, ma sono state accelerate dalla pandemia. La classe dei miliardari è cresciuta a un ritmo record e così facendo ha alimentato il rischio di rivolte sociali. Nei paesi ricchi, al momento, i sommovimenti si focalizzano quasi totalmente sulla richiesta di una redistribuzione della ricchezza attraverso la tassazione. Non si affronta però la causa e il motore essenziale del boom dei miliardari dell’ultimo anno: il denaro facile che sgorga senza posa dalle banche centrali. Tra i progressisti gli stimoli finanziari sono diventati una misura popolare quanto l’aumento delle tasse per finanziare i programmi sociali, per questo è probabile che finché i rubinetti monetari non verranno chiusi le disuguaglianze sulla ricchezza continueranno ad aumentare.
Quello che succederà dopo dipenderà dalla direzione che prenderà il trend di crescita dei grandi patrimoni. Fino a oggi, i guadagni si sono concentrati nella fascia di imprenditori che si sono fatti da soli e che sono attivi in settori produttivi come la tecnologia e la manifattura. Finché il sole splenderà su questi miliardari “buoni”, la rabbia sociale per la disuguaglianza potrà essere tenuta sotto controllo. Ma non è detto che la tendenza prenda un’altra piega, per questo occorrerà continuare a monitorare le grandi ricchezze.
(fonte Financial Times)
*L’autore è capo economista in strategie globali per Morgan Stanley. Ha scritto “The Ten Rules of Successful Nations”