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 2021  maggio 18 Martedì calendario

Intervista allo scrittore messicano Guillermo Arriaga

Scrivo senza filtri e non me ne frega niente se provoco ferite. Ecco cos’è la letteratura». Se siete a caccia di un vero scrittore, Guillermo Arriaga fa al caso vostro. Sessantatreenne messicano, la sua fama è esplosa dal 2000, grazie al sodalizio artistico con Alejandro Inarritu, firmando le sceneggiature della Trilogia della morte – Amores Perros (nomination all’Oscar come film straniero), 21 grammi, Babel – seguito da Le tre sepolture (diretto da Tommy Lee Jones), passando poi dietro la macchina da presa, sceneggiando e dirigendo The Burning Plain – Il confine della solitudine (2008), con Charlize Theron e Kim Basinger e No One Left Behind (2019). È tornato in libreria con Salvare il fuoco, il suo nuovo e torrenziale romanzo (pubblicato da Bompiani e tradotto magnificamente da Bruno Arpaia) in cui racconta cortocircuiti emotivi: da un lato José, un uomo cresciuto nella violenza e finito in carcere, dall’altro Marina, una donna borghese che imbastisce un laboratorio di danza per i detenuti e viene travolta dalla passione. In mezzo a loro, il Messico, fra «le vergognose discriminazioni razziali contro le popolazioni indigene e la violenza brutale dei narcos».
Autore di diversi bestseller – Il bufalo della notte, Un dolce odore di morte e Il Selvaggio – la scrittura è diventata «la sua vera e propria ossessione» andando a caccia della verità: «Il politically correct è una malattia dei nostri tempi, una censura fascista in nome delle buone intenzioni». Nato e cresciuto nel quartiere popolare Unidad Modelo, un quartiere di Città del Messico, in un mondo in cui siamo tutti connessi e sotto assedio dalle notifiche, lui ha chiesto qualche giorno prima di rispondere a questa intervista: «Ero nel deserto messicano, a Nord di Coahuila. A pochi chilometri dal confine con il Texas, lontano da tutto».
Ha firmato sceneggiature di successo a Hollywood, ha ricevuto numerosi premi ed è considerato fra le voci più autorevoli del Messico contemporaneo. Da dove nasce tutto?
«Quando scrivo un romanzo non so mai dove stia andando. È il caos. Ho solo una trama molto sottile. Non ho idea di chi saranno i personaggi, cosa succederà, come si evolverà la storia o come andrà a finire. Mi siedo e scrivo qualunque cosa mi venga in mente quel giorno, senza nessun tipo di mappa. È una scoperta continua che mi appassiona».
Con il personaggio secondario di Esmeralda, seviziata e ricattata parla della violenza contro le donne. Perché?
«Perché dobbiamo riconoscere che c’è una violenza continua contro le donne che ha molte sfumature e dobbiamo fermarla il prima possibile, non solo in Messico. Ovunque».
A cosa si riferisce?
«Non ci sono solo le aggressioni fisiche ma anche quelle verbali, talvolta camuffate da flirt o approcci molesti; fermare la violenza significa anche la necessità di salari giusti ed equi per le donne, contrastando ogni tipo di abuso sessuale e consentendo alle donne di raggiungere posizioni apicali, anche nella politica».
Come siamo messi?
«Il ruolo della donna è ancora pieno di ostacoli. Una donna non può abbandonare un figlio, deve prendere marito per trovare la serenità economica e deve aver cura della famiglia».
Da una parte c’è il sangue e la violenza del mondo delle carceri. Dall’altra, la narrazione di Marina, una donna agiata che scopre la passione. Morte ed eros?
«Non sapevo in anticipo della carica erotica, appariva da sola, come fosse dettata da qualcuno. In questo romanzo, la grande sfida è stata proprio la gestione delle emozioni, una narrazione in prima persona veritiera».
A proposito di verità, il politicamente corretto sta contagiando la letteratura. Cosa ne pensa? 
«Il politicamente corretto è una malattia dei nostri tempi, una censura in nome delle buone intenzioni. Il fascismo ha molti travestimenti, anche quando deriva da quelle che, presumibilmente, sono le cause più liberali».
Come lo definirebbe?
«Il politically correct è diventato una scusa per imporre punti di vista moralistici, è molto pericoloso. Naturalmente riconosco le grandi ingiustizie del mondo contemporaneo ma la censura non è il modo per risolverle».
Lo teme?
«No, affatto. Lo dimostrano i miei romanzi. Io scrivo senza filtri e non me ne frega niente se creo ferite: ecco di cosa parla la letteratura».
È cresciuto nel quartiere di Unidad Modelo e ha modellato Il Selvaggio in quelle strade. Cosa ricorda della sua infanzia?
«È stato un vero privilegio crescere lì, in un quartiere della classe medio-bassa. È stato costruito per il sindacato degli insegnanti, quindi c’erano intellettuali e persone molto colte intorno a me (compresi i miei genitori). Era una zona franca ma si percepiva chiaramente il pericolo reale che lambiva quel mondo».
L’America ha appena sospeso i fondi alla costruzione del muro voluto da Trump. Lei pochi giorni fa era nel deserto messicano. Cosa ne pensa?
«Il concetto di confine è molto poroso, non dimentichiamo che meno di 200 anni fa, la metà degli Stati Uniti apparteneva al Messico. Soprattutto, costruire un muro, senza occuparsi dell’immigrazione, è come mettere un cerotto per una grave emorragia. Il fatto è che per decenni i paesi ricchi hanno abusato delle economie dei paesi del terzo mondo: era solo questione di tempo, prima o dopo un fiume inarrestabile di migranti si sarebbe messo in marcia per un futuro migliore. Adesso, spero che il presidente Joe Biden comprenda questo problema».
Da poco si è vaccinato: ha riacquistato la libertà? Cosa farà adesso?
«Mi piacerebbe fare il giro del mondo con questo libro. Ma libertà, per me, significava poter abbracciare mia madre, baciarla. Non l’ho fatto per un anno per tentare di proteggerla dal Covid ma, sfortunatamente, si è ammalata ed è morta. Sto soffrendo la sua perdita. Libertà, come vede, è un termine molto ambiguo».