Corriere della Sera, 17 maggio 2021
Caro Raboni, così non va
Il 19 aprile 1953, Giovanni Raboni si trovava a Roma con sua madre per ritirare il primo premio al concorso di poesia «Incontri della gioventù». Per il ventunenne studente in giurisprudenza, già orfano di padre, fu quella l’occasione per conoscere Carlo Betocchi, destinato a diventare il suo maestro e mentore. Il poeta ermetico era con Giuseppe Ungaretti (presidente), Leone Piccioni, Adriano Grande, tra gli illustri giurati di quel riconoscimento ufficiale. La raccolta che Raboni aveva inviato si intitolava Gesta Romanorum e fu considerata all’unanimità e di gran lunga il testo più interessante tra quelli candidati, tanto che Betocchi mostrò subito una «grande apertura» verso quel giovane milanese chiedendogli di andare a trovarlo a Firenze. Ne nacque un’amicizia e un sodalizio: «Era un lettore veramente straordinario, non ho mai incontrato nessuno che leggesse con tanta generosità, con tanta finezza e serenità: non lasciava passare niente». Con queste parole, anni dopo Raboni avrebbe ricordato il significato di quell’incontro decisivo per la sua carriera poetica e nella stessa circostanza precisò che il dattiloscritto del Gesta Romanorum, andato perduto, forse sarebbe stato possibile ritrovarlo tra le carte dello stesso Betocchi
Giusta intuizione, perché il fascicolo, di 52 carte, si conserva proprio nell’archivio, depositato al Gabinetto Vieusseux, del giurato di quel premio antico. Lo ha scoperto, anni fa, lo studioso Luca Daino, autore di un recente volume su Raboni (I «bagliori degli spigoli», Mimesis), il cui nucleo fondamentale ha per oggetto proprio la raccolta del 1953, un insieme di 4 sezioni in cui è netta la prevalenza del tema religioso e della narrazione evangelica.
La raccolta, cui si aggiunsero in pochi anni altri testi affini di argomento neotestamentario, rimase inedita nella sua struttura originaria, ma avrebbe occupato i pensieri del suo autore per tutta la vita, sicché a distanza sarebbero stati ripresi una ventina dei circa cinquanta testi, integralmente o parzialmente: prima nel libretto eponimo del 1967 (Lampugnani Nigri), poi in A tanto caro sangue del 1988 (Mondadori), infine in una riscrittura della Passione allestita nel 2000 per il teatro. Ancora la narrazione della crocifissione vista dai comprimari, «testimoni che soltanto dopo, a cose fatte, a prodigio o delitto consumato, acquistano una consapevolezza innocentemente o colpevolmente frammentaria degli eventi» (sono parole sue). Daino parla di una sorta di riscatto degli esordi obliati.
Testi giovanili che lasciano echi per una vita. E bisogna tener conto che si tratta di una vita di lettore e di poeta segnata da inizi «vergognosamente» precoci, se è vero che Raboni comincia a divorare l’opera di Shakespeare tra i 12 e i 13 anni, sprofonda subito in Baudelaire, legge e rilegge Rilke fin da bambino, si avvicina prestissimo alla Recherche ricevuta in regalo dal padre per la maturità, affronta l’Ulisse di Joyce nella versione francese. E ai dieci anni («o forse prima») risalgono i suoi primi versi. Eppure, scriveva a Betocchi nel dicembre 1954: «Non ho mai sentito una gran smania di stampare, e poi son così poche le mie cose che io non metto in discussione!». Forse per questo l’esordio in volume avvenne solo nel 1961 con una smilza plaquette semiclandestina, Il catalogo è questo, pubblicata nelle minuscole edizioni dell’amico Arrigo Lampugnani Nigri. Un’altra suite, L’insalubrità dell’aria, uscirà da Scheiwiller nel 1963 ben cinque anni dopo la consegna (sicché ironicamente Raboni ricordava che il suo primo libro in realtà era il secondo, o viceversa). Certamente per le cautele autocritiche confessate a Betocchi la raccolta Gesta Romanorum rimase inedita (almeno in parte), ma non va dimenticato che fu lo stesso Betocchi a mostrarsi tiepido su un’eventuale uscita.
Daino mostra come le ragioni dei dubbi manifestati dal mentore di Raboni vadano cercate probabilmente nelle fonti ispirative e nella poetica di quell’opera d’esordio: e forse addirittura nella eccessiva precocità sperimentale di quei componimenti che guardavano a un panorama internazionale percepito ancora come estraneo alle sensibilità poetiche nostrane. È lo stesso Raboni a riconoscere come determinante la scoperta, fatta dopo la guerra, della cultura poetica modernista, in specie quella inglese e anglo-americana, grazie alla quale «ho messo a punto un meccanismo di travestimento in cui scompariva la persona autobiografica». Daino sottolinea la tempestività con cui Raboni si impadronì di Ezra Pound e di T.S. Eliot. Soprattutto del primo, le cui poesie, nonostante la notorietà del personaggio, tardarono a essere tradotte e diffuse in Italia, se è vero che Vittorio Sereni solo nel 1956 parlò del frammentario interesse per il poeta americano.
Tornando ai dubbi di Betocchi, che certamente agirono nella decisione di non pubblicare il libro del 1953, Daino segnala una lettera in cui il poeta rimprovera al suo pupillo, con molta sincerità, di fondare fin troppo la propria vena sul modernismo anglosassone: «Stia attento a non farsi un mondo poetico su un mondo di poesia che ha avuto la sua ragion d’essere... Stia attento a non finire in una poesia decorazione. Perché si fa presto: e lei sta muovendosi in una chincaglieria di nomi e di oggetti che fanno spettacolo e rappresentazione». I rischi sono per Betocchi nell’eccessiva spersonalizzazione della scrittura, ovvero, come sottolinea Daino, nel mascheramento delle «segrete vie per le quali passa lo spirito poetico». Tuttavia, per Raboni, già ben consapevole dei propri mezzi, la renitenza a esporsi, il camuffamento dell’io, la sordina a ogni tentazione sublime, così come il tenersi ai margini delle cose e la riduzione dell’epica (evangelica) a normalità quotidiana, erano una conquista e un punto di avvio. Presupposti irrinunciabili in direzione della poesia metropolitana degli anni a venire (dalle Case della Vetra, Mondadori 1966, in avanti), quella poesia che messa a contatto con il boom economico produce una figuratività spettrale e straniata a cui Betocchi, stavolta, avrebbe dato la sua benedizione incondizionata. Una prospettiva che, al culmine della carriera poetica, si manifesterà in una poetica dei barlumi e del «rimorso».
Insomma, quella di Daino è una lettura che pur non respingendo la parentela con la cosiddetta linea lombarda, tiene in ombra i rapporti con compagni di strada come Sereni e soprattutto i debiti conclamati rispetto a Montale (del tutto assente nel saggio) e che semmai, tra gli italiani, rivaluta, oltre allo stesso Betocchi e a Luzi, da un lato l’atipico Saba e dall’altro Fortini (anche in chiave politica e civile).
E in questa chiave nel critico e nel poeta viene riconosciuto, nella seconda parte del libro, un nodo che stringe insieme la cultura modernista con un sostrato filosofico: quest’ultimo proviene dall’impatto con la fenomenologia di Husserl filtrata dalla scuola milanese di Antonio Banfi e di un altro maestro di Raboni, Enzo Paci, incontrato nel 1950 attraverso l’amico Lampugnani: da lui sentì parlare di Goethe e di Kierkegaard, di Wittgenstein, di Schönberg e di Klee. Anche la musica e la pittura saranno benzina capace di accendere la poesia di Raboni con la sua salda fedeltà alla vita riconosciuta in anni tardi: «Credo di aver capito che in nessun momento della mia esistenza, del mio lavoro, ho voluto scostarmi dalla vita. È un rapporto con la vita che non chiamerei d’amore (...), ma certamente di rispetto».