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 2021  maggio 17 Lunedì calendario

Difendere gli indifendibili

I non giuristi si pongono la domanda: l’avvocato che sa della colpevolezza di chi gli si rivolge può assumerne la difesa? Perché la sua coscienza professionale sia tranquilla, deve essere certo dell’innocenza del suo cliente o, quanto meno, essere nel dubbio. In breve: dev’essere in buona fede?
Il pubblico profano, magari con una certa superficialità, pensa che difendere chi ha commesso una cattiva azione e cercare di farlo apparire innocente equivalga a diventarne corresponsabile. Penserà, insomma, che quell’avvocato, capace di trasformare il bianco in nero e il nero in bianco, sia un “cattivo cristiano”. Il codice deontologico chiede all’avvocato di rifiutare la sua opera quando possa desumere ch’essa contribuisca alla realizzazione di “operazioni illecite”. Che cosa questa dizione significhi in concreto non è chiaro. Chiara invece l’esigenza in astratto: l’avvocato non deve diventare “complice” del suo assistito nel compiere le sue cattive azioni. Soprattutto in certi ambienti dove domina l’illegalità e le sue compagne, la violenza e l’omertà, quella norma è un invito, non si sa quanto efficace, a non cadere in una rete di connivenze e di ricatti da cui non potrà uscire anche perché, entrando, viene a conoscenza di cose che soffocano la libertà, quella libertà che è quintessenza d’ogni “professione liberale”. L’“avvocato di mafia”, per esempio, è ancora un libero professionista?
I giuristi di oggi, di solito, eludono la questione di coscienza. Per esempio, essa sarebbe un’ingenuità propria delle anime semplici. Tutti, anche i peggiori delinquenti, hanno il sacrosanto diritto d’essere difesi. Sì, ma perché proprio da te? Di avvocati ce ne sono tanti e, anche se non si trovasse quello disposto, esiste la difesa d’ufficio. Altro argomento: all’avvocato interessano soltanto gli aspetti giuridici, gli stessi che il giudice dovrà valutare. La responsabilità, la colpevolezza, la moralità del suo assistito è del tutto irrilevante. L’avvocato non vorrà nemmeno saperne. Ciò che conta, per lui, sono esclusivamente i profili giuridici del caso e gli argomenti legali ai quali potersi appoggiare. I suoi doveri stanno tutti e solo qui: nella trattazione competente e scrupolosa della causa. Tutto il resto – si dice – appartiene a un’altra dimensione, la morale; e la morale con il diritto positivo non deve essere mescolata. Del resto, la giustizia non sta quasi mai nell’alternativa tutto o niente, bianco o nero. Ci sono tante sfumature di giustizia lavorando sulle quali le domande radicali non si pongono o non si pongono come vorrebbero coloro che dividono il mondo tra il bene e il male.
Tuttavia, per chi non crede possibile la detta netta separazione della legge dalla giustizia, per chi pensa che questa separazione sia artificiosa, la domanda: “che cosa m’induce ad accettare o a rifiutare d’assumere una difesa?” si pone necessariamente. Non insistiamo sulla forza persuasiva del denaro, della “parcella”. Non insistiamo per la semplice ragione che questo fattore quasi sempre decisivo nelle umane decisioni non è affatto una prerogativa delle professioni liberali. Pecunia regina mundi.
La “coscienza all’incanto” di cui parlava Dostoevskij non è un triste privilegio dei giuristi. Non stiamo neppure a parlare della forza attrattiva che sull’avvocato esercita la notorietà del cliente, la sua importanza sociale, perfino la sua immagine fosca e diabolica: gliene potrà derivare fama per il sol fatto di avere difeso un individuo illustre. Alcuni esempi, lasciando fuori gli italiani: Jacques Vergès, controverso personaggio, famoso per aver assistito grandi criminali, come Klaus Barbie, il “boia di Lione” (ufficiale nazista responsabile, tra l’altro, dello sterminio di tanti bambini ebrei), il capo cambogiano Khien, e terroristi attivi in varie parti del mondo, eccetera, guadagnandosi la fama di “avvocato del diavolo”. René Floriot, noto come l’avvocato più costoso di Francia, difese diversi criminali di guerra, il serial killer Marcel Petiot e fu protagonista nel celebre affaire Pierre Jaccoud, a sua volta eminente avvocato e uomo politico svizzero. I clienti famosi, non necessariamente i più ricchi, sono oggetti preziosi per gli avvocati. La fama del cliente si riverbera su quella del suo difensore. La notorietà nel “mercato” delle professioni giuridiche, come nel commercio, è una condizione di successo; il successo moltiplica il successo e apre le porte d’accesso in quelle atmosfere rarefatte del gran mondo dove possiamo trovare l’avvocato che gode di grande rispetto perché è uomo di fiducia di qualche potente, ne è “confessore” al quale, come al notaio d’un tempo, si confidano i segreti, anche i meno onorevoli.
Esistono, poi, avvocati che per principio o di preferenza difendono le vittime e i deboli, anche gratuitamente, come fanno i cosiddetti “avvocati di strada”. Altri assumono la difesa “per partito preso”, come Donna Rotunno, negli Usa, che assiste per principio i presunti stupratori di donne, oppure come Tina Lagostena Bassi che, al contrario, difendeva le vittime contro i violentatori. Altri, gli “avvocati di tendenza”, difendono imputati politici perché militano dalla loro stessa parte e operano “per la causa” o per “l’idea”, come un tempo gli avvocati di “soccorso rosso”. Altri ancora che si tengono lontani dagli affari criminali delle tante mafie, dei tanti giri di potere opaco, delle massonerie compromesse in affari illeciti, oppure che accettano di entrarvi. Altri, ancora, che difendono, per scelta di campo, i grandi interessi imprenditoriali e finanziari a prescindere dalle troppe domande e dalle offese che le vittime possono patire, e lo stesso fanno per i potenti della politica. Altri, infine, che difendono chiunque senza fare differenze, in nome del diritto alla difesa che spetta a tutti.
Perfino può accadere che si assuma consapevolmente la difesa in processi dai profili ripugnanti, per affermare nobilmente che anche in quei casi, e proprio in quei casi – la violenza sui bambini, lo stupro, l’omicidio efferato, la strage, lo sterminio, il linciaggio mediatico, eccetera –, il diritto ha le sue ragioni e il processo non deve trasformarsi in un’ordalia o in una vendetta mascherata da dare in pasto a un’opinione pubblica sovreccitata. I giuristi sono lì per questo. Gli avvocati dei grandi processi del XX secolo, Norimberga e Gerusalemme per esempio, non è detto che stessero dalla parte politica di Goering e degli altri capi nazisti o di Adolf Eichmann. Anche in quei processi, dagli esiti in gran parte scontati, la voce del diritto doveva risuonare se non altro simbolicamente. Nei paesi che si dicono civilizzati, non si mette a morte nessuno senza un “regolare processo legale” anche quando i fatti sono certi e si sa fin da prima quale sarà il finale. Il simbolo, proprio quando “la cosa” non c’è, e tutti lo sanno, è importante. Non si tratta necessariamente solo d’ipocrisia e di repellente finzione. La questione è meno semplice. Questa ipocrisia può essere considerata come omaggio alla giustizia che, seppur svuotata di contenuto nel caso concreto, deve almeno mantenere la forma in modo che, in altre meno tragiche ed estreme circostanze, possa riprendere la sua sostanza. Così si può rispondere alla grande domanda: perché si vuole comunque il processo, anche se la condanna è certa ben prima che si apra il dibattimento? Perché Servatius ha accettato di difendere Eichmann? Perché gli americani hanno imbastito un processo superando difficoltà d’ogni genere, prima di far impiccare Saddam Hussein? Perché a Norimberga si è svolto un impeccabile processo, almeno nel rituale, quando tutti sapevano, criminali nazisti compresi, che per loro non ci sarebbe stato scampo? Perché alcuni di loro hanno preferito togliersi la vita prima del processo: di che cosa, con la loro morte preventiva, hanno voluto privare i loro nemici che avevano imbastito il processo? La risposta è: del diritto di giudicare, un diritto sommo e terribile a cui nessuna società può permettersi di rinunciare. Per questo chi è in attesa di giudizio, conoscendo in anticipo il momento in cui sarà messo a morte, è sottoposto a guardia severissima per evitare il suicidio. È solo questione di non privarsi di un macabro spettacolo, oppure di non poter soddisfare le vittime col sangue del responsabile del loro dolore? La domanda è molto più importante di quella opposta: perché non passare subito per le armi o per il cappio “il mostro”, che si chiami Saddam Hussein, Bin Laden, Gheddafi o Slobodan Miloševi?? Alla fine, perché il processo anche per costoro e perché c’è stato scandalo quando s’è fatta giustizia sommaria? Perché il diritto, anche a costo di trasformare il processo in una farsa?
Vorremmo e sapremmo condannare l’avvocato che, con la sua presenza, permette lo svolgimento del rito della giustizia – sia pure di quella giustizia corrotta dall’ipocrisia – a conferma che allo Stato non è mai lecita la violenza bruta?