la Repubblica, 17 maggio 2021
Intervista a Piera Degli Esposti
Piera Degli Esposti abita a Roma al terzo piano di via del Governo Vecchio. Fa ormai parte della storia del teatro e del cinema. Hanno scritto di lei: non è un’attrice, è un fatto. Ha lavorato, tra gli altri, con registi come Calenda, Proietti, Pasolini, Paolo e Emilio Taviani, Ferreri, Moretti, Sorrentino.
Oggi ha 83 anni, ma la sua vitalità è intatta, come il suo spirito solitario e anticonformista che si esibisce tra blusoni e foulard. È diventata ciò che voleva essere, anche perché spesso possiamo soltanto diventare quello che facciamo. Ma possiamo sognare di essere altro, soprattutto se pensiamo di vivere per sempre, come sostiene Piera impugnando l’illusione come un dogma: «Non voglio rispondere a domande sulla morte, l’avverto subito così magari evitiamo di litigare».
Una soltanto la faccio. Lei davvero si è convinta di essere immortale?
«Assolutamente sì. Qualche anno fa l’ho spiegato pure a un frate che incontrai assieme a Bellocchio, mi sembra a Vasto, durante non so più quale festival. Strabuzzò gli occhi, ma non seppe che cosa obiettare, è naturale fosse un fautore della vita eterna. Non morirò, mi creda. Ho fatto l’attrice per essere altra da me, per vivere molte vite. E da viva voglio essere celebrata. Altrimenti mi sarei laureata in giurisprudenza».
Per diventare che cosa?
«Commissaria di polizia, il crimine è la mia passione. Mi piace stare dentro l’atmosfera dei delitti fin da quando ero bambina e abitavo con mamma a Bologna. Leggevo la cronaca sul Resto del Carlino e la politica sull’ Unità che mio padre, sindacalista alla Camera del lavoro tra Vicenza e Venezia, nel Veneto bianco dei preti e della democrazia cristiana, ci portava in casa una volta la settimana, quando tornava per trascorrere la domenica con noi.
Coltivavo un’attrazione verso gli assassini, entravo nelle indagini con l’immaginazione, sceglievo indizi, progettavo moventi. Le storie macabre mi procuravano già allora brividi di felicità».
Quali casi ricorda in particolare?
«Oh! Sono tantissimi. Il famoso delitto dell’ermellino che nel 1948 portò in carcere Pia Caroselli, moglie del conte Lamberto Bellentani, per avere ucciso il suo amante Carlo Sacchi al Grand Hotel Villa d’Este di Cernobbio; il caso Fenaroli-Martirano di via Monaci a Roma e quello di Rina Fort che ammazzò la moglie e i tre figli piccoli dell’uomo con il quale aveva una relazione, fino al caso Bebawi di via Veneto, lo scandalo della dolce vita che fece impazzire i giornali. Ma mi ha entusiasmato anche il dipanarsi di storie più recenti: il mostro di Firenze, Erika e Omar, Annamaria Franzoni, Olindo e Rosa, sono le prime che mi vengono in mente».
Lei patteggia con gli assassini?
«No, in realtà li disprezzo. Sono l’investigatrice che li deve portare davanti alla giustizia. Cerco di comprenderne la psicologia studiando le loro mosse. Certo, gli assassini sono senza dubbio i custodi di una situazione, quella di dare la morte a qualcuno, il più delle volte penso che lo facciano per il bisogno di liberarsi di un peso che li schiaccia inesorabilmente fino ad annientarli. E, infatti, molti di loro, dopo il disvelamento delle responsabilità e ancor prima della condanna, diventano docili, tenuemente illuminati di un sorriso di rassegnazione, se non di pace».
E a lei che cosa resta?
«Una marea di facce che mi affolla la mente. Un mondo. Vede, ho sempre detto che non ho mai avuto bisogno di viaggiare perché mi bastavano le radici del mio albero famigliare.
Profonde nella terra, alte nel cielo.
Mia madre Antonia che si alzava alle quattro ogni mattino per andare a lavorare e che, anche per colpa mia, è passata alla storia come ninfomane, lo hanno scritto anche sui muri di Roma, e ora le devo, le dobbiamo, chiedere perdono; mio padre Alceo; mio fratello Franco e mia sorella Carla, di otto anni più grande, segretaria di Nilde Iotti, la Iotti che vedevo a Botteghe Oscure e che per me era una zia. Un pomeriggio mi disse: vieni che ti porto in Parlamento e mi fece salire sulla sua macchina con autista».
Ha confessato che con sua madre si è divisa più di un fidanzato.
«Ero giovane ed ero discreta».
Discreta?
«Sì, cioè, voglio dire che ero molto bella. Di uomini ne ho avuti parecchi. Una sera presi carta e penna e cominciai a mettere giù un elenco di nomi, finché papà mi sorprese alle spalle e diede alla pagina un’occhiata distratta, senza leggere veramente quanto stavo scrivendo. Brava, mi incoraggiò, è giusto che cerchi di migliorare la tua calligrafia».
Torniamo al crimine. Ha appena scritto un noir per Rizzoli, “L’estate di Piera” con Giampaolo Simi, autore toscano della squadra “Sellerio”. Simi mi ha raccontato che avete iniziato quasi per gioco e di avere trovato lungo la strada una lingua in comune. Ha aggiunto di essere rimasto affascinato dal suo essere punk a dispetto della globalizzazione del pensiero e della fatica sopraggiunta con l’età. “L’estate di Piera” giaceva da tempo in qualche cassetto della scrivania?
«Mai lasciato nulla ad ammuffire nel buio, mai scritto nulla prima, se non una sceneggiatura assieme alla mia amica del cuore, Dacia Maraini.
Scrivendo questo libro, ho realizzato un sogno e devo tutto alla generosità e al talento di Giampaolo. L’idea ci è venuta nella sua casa di Viareggio, dalla parte in cui si sente l’odore di Genova. Abbiamo scoperto che potevamo essere una buona coppia letteraria, ci siamo scambiati i primi fogli a partire dal maggio di due anni fa e abbiamo consegnato le bozze nel febbraio del 2020. Quattromila copie vendute, poi ci è piombato addosso questo maledetto Covid».
Quali sono state le sue letture di riferimento?
«Il commissario Maigret di Simenon e, soprattutto, Agata Christie con il suo Hercule Poirot. Poirot è il detective perfetto: ordinato, meticoloso, composto nei gesti, l’ispettore che risolve le trame più intricate stando seduto su una poltrona. Uno che sente ogni sussurro, io sono come lui. E sulla torta mettiamoci la guarnizione finale dell’umorismo di Wodehouse. Lo leggo e lo rileggo di continuo. Ora mi scusi, devo bere un sorso d’acqua, mi manca il fiato e ho i polmoni malati».
Come ha vissuto la pandemia?
«Non ho ancora messo il naso fuori, ci crede? Sono un soggetto fragile.
Mi sono trasformata in una formica operosa e tenace che zampetta tra sorprese e piccoli miracoli casalinghi. Una vecchia gonna della gioventù, una fotografia in bianconero dai bordi seghettati, un tessuto finemente ricamato che risistemo su un tavolo».
Le capita mai di ripensare a quella lista di amori mai completata?
«Li ho tutti in testa. Vede, ho amato molto ma forse ho amato sul serio solo i pochi uomini che non sono riuscita a conquistare. Sono tre e non farò i loro nomi, a tutela del mio orgoglio».
E quanti ne ha avuti?
«Saranno stati ottanta. No, guardi, metta sessanta. Anzi, faccia così: scriva una cinquantina».
L’incipit ideale del suo prossimo romanzo?
«Nella penombra una donna entra in una stanza vuota e dice: Luisa, dove sei?».