La Stampa, 17 maggio 2021
Nell’Home Front Command, la base militare che neutralizza i missili e spiega agli israeliani come proteggersi
Per ogni razzo lanciato da Hamas – 3.100 il bilancio nella settimana di conflitto appena trascorsa – e per ogni scontro violento fra arabi ed ebrei che ha agitato le città israeliane da Akko a Haifa, da Lod a Giaffa, l’intera catena di controllo e comando sul fronte interno passa attraverso gli edifici e le stanze della base militare «Pikud HaOren».
Allarmi, difesa aerea e difesa civile sono i tre pilastri dell’Home Front Command israeliano. «Salviamo vite umane», sintetizza il Generale Uri Gordin, il regista della sicurezza.
La Stanza del Comandante è custodita nel cuore della nuovissima palazzina bunker, l’edifico più tecnologico della base alla periferia di Ramle, dove transitano le informazioni classificate che permettono a Israele di vegliare sulla vita dei suoi 9,3 milioni di abitanti.
Una volta all’interno, tutto ciò che accade fuori viene percepito attraverso schermi di computer e televisori. L’isolamento e la concentrazione sono totali.
Due notti fa sono caduti, su Tel Aviv, più missili che durante tutti i 50 giorni di Margine Protettivo nel 2014. Una squadra si occupa della sincronizzazione dei segnali di allarme. È praticamente impossibile restare all’oscuro del pericolo incombente di un razzo. I sistemi includono app per gli smartphone, banner sui canali delle news in televisione, segnali sonori che entrano nei canali radio e sui principali siti di notizie. E, naturalmente, le sirene. Dal punto di vista degli avvisi di sicurezza, Israele è diviso in 1700 zone. E solo chi si trova in una località sotto attacco, riceve l’avvertimento.
La durata della sirena corrisponde al tempo a disposizione per correre al riparo. Chi vive nei pressi della Striscia di Gaza ha 15 secondi. Il che significa che in qualunque momento – sotto la doccia, al volante, a letto – il rifugio deve essere a portata di mano. A confronto, i 90 secondi dei residenti di Tel Aviv sembrano un tempo lunghissimo. Non lo sono. L’ha dimostrato il razzo caduto l’altro ieri a Ramat Gan, che ha sorpreso un uomo di 50 anni dietro la porta di casa, mentre decideva dove dirigersi. Su nervi e sangue freddo incide anche la frequenza di un attacco. Gli abitanti della cittadina costiera di Ashdod, nell’ultima settimana, sono stati sottoposti a 246 allarmi.
L’altro fattore critico, è il «mamad» – in ebraico, il rifugio. Di fatto, un contenitore in cemento e ferro, che durante i 73 anni di vita Israele si è evoluto insieme con le guerre che lo Stato ha combattuto. «Quando gli attacchi erano aerei – spiega il Generale Gordin, una laurea in ingegneria elettrica e un master ad Harvard in pubblica amministrazione – c’erano solo i rifugi pubblici sotterranei. Oggi, ogni nuova casa da costruire passa attraverso il vaglio dell’HFC, che ne approva il sistema dei rifugi e delle vie di fuga». Solo un quarto della popolazione vive senza «mamad» in casa. Sta ancora all’Home Front Command divulgare capillarmente le istruzioni per affrontare l’emergenza: ripararsi sotto la rampa di una scala, scendere dal veicolo su cui si viaggia, sedersi per terra proteggendosi la testa con le mani.
I rischi non terminano con il cessare del suono della sirena. È in quel momento che entra in azione Kippat Barzel, la cupola di ferro della difesa aerea. Grazie a tecnologie all’avanguardia, frutto di una ricerca continua, l’Iron Dome riesce a intercettare il 90% dei missili. Anche sotto le raffiche più intense, dispiegate da Hamas durante questo conflitto. I minuti successivi sono spesso i più rischiosi. «I missili che percorrono traiettorie tra i 20 e i 60 chilometri – spiega il Comandante – sono lunghi dai 3 ai 6 metri. Anche se intercettati e colpiti, i frammenti possono ancora colpire persone ed edifici, danneggiare e uccidere». E anche se non interviene sul campo, all’HFC spetta il delicato ruolo di coordinare l’intervento di polizia e Magen David Adom (il pronto soccorso israeliano), vigili del fuoco e assistenza sociale.
«Il segreto – svela il generale – è trasformare l’emergenza, in routine»