il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2021
La camicia col sangue del beato Livatino
Solitamente, per santi e beati, ci sono delle reliquie da venerare. Nel caso di Rosario Livatino, beatificato una settimana fa, ce n’è una sola e simboleggia il suo martirio “in odio alla fede”.
Nella solenne celebrazione di domenica 9 maggio nel duomo di Agrigento è stato infatti esposto un reliquario d’argento e di forma rettangolare che contiene una camicia del magistrato ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990. È la camicia che indossava il giorno dell’agguato, avvenuto sulla statale che va da Canicattì, dove Livatino abitava, ad Agrigento. Lui era a bordo della sua Ford escort rossa. Da solo. Senza scorta. Tentò la fuga in un prato e venne finito a colpi di pistola. La camicia era azzurra e ora ha un colore porpora sbiadito. Il suo sangue. È un reperto del processo contro i suoi killer e per la proclamazione a beato è stato dato dalla Corte d’Assise di Caltanissetta “in affidamento temporaneo” all’arcidiocesi di Agrigento.
È una reliquia che a vederla suscita una forte emozione, che va ben oltre le parole pronunciate una settimana fa da esponenti della Chiesa e della magistratura. Un’ostensione che stride con la valanga di veleni, corvi, accuse e sospetti provocata dall’affaire Amara della loggia Ungheria. Chissà: se qualcuno dei protagonisti si inginocchiasse davanti a questa camicia insanguinata, avverrebbe pure un miracolo. Del resto per diventare beati ne servono almeno due e durante la causa portata avanti dalla Chiesa è stato provato che Livatino ha fatto guarire due donne da malattie incurabili. In particolare, un’insegnante di Pavia colpita nel 1993 dal linfoma di Hodgkin. Le apparve in sogno un giovane vestito da sacerdote. Due anni dopo, prima di entrare in ospedale per fare degli accertamenti, vide la foto di Livatino su un quotidiano e riconobbe il volto del giovane sognato. Le restava poco da vivere ma il 20 settembre del 1996, alla vigilia dell’anniversario della morte del magistrato, fu stilato il certificato di remissione della malattia. Scomparsa.
Rosario Livatino aveva quasi 38 anni ed era alto un metro e sessanta. Mesi dopo il suo omicidio, l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga se la prese in modo sprezzante coi giudici ragazzini che venivano mandati in terra di mafia. Anche per questo chi conobbe Livatino ha detto che sarebbe ora di non chiamarlo più “giudice ragazzino”. Basta. Il magistrato era fin troppo consapevole dei rischi che correva. Ogni giorno cominciava la sua agendina con il motto “STD”. Sub Tutela Dei. E diceva: “Alla fine della vita, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”.
Purtoppo, non è mancato chi ha piegato la sua figura agli interessi di parte. È il caso di Alfredo Mantovano, a sua volta giudice e già sottosegretario all’Interno dei governi di Berlusconi. Oggi è vicepresidente del Centro Studi Livatino (sic!) e ha attualizzato a modo suo il pensiero del beato: “Se oggi fosse in servizio – la data di nascita glielo avrebbe permesso ancora per un anno e mezzo –, per un verso sarebbe estraneo a chat tipo quelle animate da non pochi magistrati, (…), per altro verso osteggerebbe il sacrificio della giustizia sull’altare dell’ideologia o di presunte supremazie etiche”.