Il Messaggero, 17 maggio 2021
La riforma digitale non è arrivata a Tokyo
All’inizio si è pensato ad un errore di comunicazione. Scuole chiuse durante le lezioni, con rinnovo della cosiddetta Dad (didattica a distanza), ma obbligo per gli alunni di andare a mensa per il pranzo. Un’assurdità, hanno subito pensato un po’ tutti: che senso ha tenere i bambini a casa tra mille difficoltà tecniche e logistiche per poi obbligarli a frequentare le mense, notoriamente il momento più pericoloso per un eventuale contagio?
Non era un errore. Il comune di Osaka assieme a Tokyo una delle città più colpite dalla cosiddetta quarta ondata che ha colpito il Giappone e che a poche settimane dalle Olimpiadi ha costretto il governo ad estendere di nuovo lo stato di emergenza, per ora, fino alla fine di maggio aveva davvero deciso di creare questo pericoloso precedente, giustificandolo con il fatto che garantire un pasto gratuito e uguale per tutti, per la scuola dell’obbligo, è un obbligo costituzionale.
Giusta preoccupazione, hanno notato i media nazionali, ma di fronte ad un’emergenza come quella attualmente in corso bisogna dare priorità alla sicurezza e alla tutela della salute pubblica. Un ostacolo quello di una costituzione che vieta espressamente qualsiasi possibilità di restringere a livello nazionale alcune libertà fondamentali, compresa quella di movimento che ha impedito al governo centrale di imporre per legge o decreto chiusure forzate e coprifuoco, delegando alle autorità locali il compito di valutare eventuale misure restrittive/coercitive ad hoc. Ed è quello che, grazie al senso di disciplina, e al diffuso rispetto per le raccomandazioni delle autorità ha aiutato sin qui il Giappone a gestire al meglio la pandemia.
Dopo una serie di riunioni tra associazioni dei genitori, rappresentanti dei docenti e autorità locali il problema delle mense aperte è rientrato, e Osaka si conferma una tra le poche città del Giappone (Tokyo è decisamente indietro) ad aver approfittato dell’emergenza Covid per imboccare con determinazione la via della cosiddetta transizione digitale. Una via tutt’ora lastricata di molti, per ora insormontabili ostacoli, e che non riguardano solo il settore della scuola, ma l’intera società giapponese, che è molto meno digitalizzata di quanto si possa immaginare. Destò scalpore, agli inizi della pandemia, scoprire che i numeri dei contagi, nonostante il basso numero di tamponi, venivano trascritti a mano e inviati via fax (strumento caduto oramai in disuso in gran parte del mondo industrializzato ma ancora diffusissimo in Giappone) alle autorità centrali. Ma se la scarsa diffusione della banda larga e delle tecnologie per il collegamento a distanza (poche aziende giapponesi sono accessibili da remoto con il Vpn), oltre alle difficoltà logistiche dovute alle dimensioni delle abitazioni, hanno reso complicato e poco diffuso lo smart working, nel settore della scuola l’emergenza Covid ha provocato così come in Italia – l’improvvisa accelerazione di un rinnovamento che il governo aveva da tempo individuato come necessario ma che languiva, come tanti altri, nei meandri di una pubblica amministrazione non sempre pronta a recepire le indicazioni della politica.
Parliamo del cosiddetto Giga (Global and Innovation Gateway for All), un programma che il governo aveva lanciato già dal 2018, e che stanziava all’epoca, ma i fondi sono stati appena raddoppiati, circa 5 miliardi di dollari per aggiornare e collegare in rete la dotazione informatica delle scuole dell’obbligo (elementari e medie) e soprattutto istruire docenti e alunni (più i primi che i secondi, che come in tutto il resto del mondo sono decisamente più a loro agio nel maneggiare computer, tablet e smartphone). Ma sia governo che autorità locali si sono trovati davanti ad un enorme ostacolo: quello della scarsa diffusione, sia tra gli adulti che soprattutto dei giovani studenti, di computer e tablet. La maggior parte dei giapponesi, bambini compresi, dispone e smanetta regolarmente con i telefonini, ma pochi, in paragone ad esempio ai loro vicini coreani e financo cinesi, possiedono dispositivi più sofisticati, ma indispensabili per la Dad. Solo uno studente su 5, dicono le statistiche possiede un tablet o un computer ma si tratta di un possesso spesso condiviso con altri membri della famiglia. L’uso esclusivo è appannaggio di appena uno su dieci. Per questo tra gli impegni assunti dal governo c’è anche quello di aumentare le dotazioni delle scuole, in modo che i nuovi, aggiornati dispositivi possano essere almeno prestati agli alunni. Ma questo vale solo per la scuola dell’obbligo: gli studenti delle superiori livello al quale accedono oltre il 90% dei giovani dovranno arrangiarsi ed acquistarne uno a loro spese. Dall’anno prossimo saranno infatti obbligatori e il loro acquisto peserà sui già difficili bilanci delle famiglie.