Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2021
Un tuffo nel cinema degli anni trenta
Gli anni Settanta hanno rappresentato, per la storia degli studi cinematografici italiani, il tempo della riscoperta degli anni Trenta. Il 1975, in particolare, era stato l’anno in cui la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro aveva avviato una seria ricognizione sul cinema fascista italiano, favorendo un approccio più scientifico e pacificato ad una produzione sulla quale pesava il sospetto politico e lo strapotere del cinema del dopoguerra. In quello stesso anno, Francesco Savio pubblicava per Sonzogno Ma l’amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943 ), un repertorio per l’epoca straordinario che dava conto dei 720 titoli prodotti in Italia dall’avvento del sonoro alla caduta del fascismo. E sempre nel 1975, la Rai trasmetteva, tra il 21 luglio e il 22 agosto, le interviste radiofoniche che lo stesso Savio aveva realizzato tra il 1973 e il 1974 ad alcuni dei maggiori protagonisti del cinema italiano degli anni Trenta. I nastri delle oltre cento interviste sono conservati presso il Centro Sperimentale di Cinematografia e le registrazioni originali sono oggi disponibili in rete sul sito dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, ma nel 1979, proprio sul finire di quel decennio, Tullio Kezich curò per Bulzoni tre volumi che raccoglievano le trascrizioni delle interviste di Savio, con il titolo di Cinecittà anni Trenta.
Savio si era tolto la vita tre anni prima, il 28 ottobre del 1976, lo stesso giorno in cui «Paese Sera» pubblicava il necrologio che, con nero senso dell’umorismo, egli stesso aveva inviato al giornale prima di suicidarsi: «Francesco Pavolini (Francesco Savio) si congeda da Chiara (che lo ha preceduto nel commiato), dai genitori, dal fratello, dagli amici, dal cinema. Dispiaciuto di perdere la prossima “prima”, ma in pace con se stesso e con il mondo».
Va salutata con gioia la ricomparsa in libreria dei volumi di Cinecittà anni Trenta, divenuti ora due nella nuova veste Bulzoni-Centro Sperimentale di Cinematografia e nella preziosa edizione critica che si deve ad Adriano Aprà, calatosi pazientemente dentro ognuna delle interviste e, per quanto possibile, nelle forme del pensiero e del lavoro di Savio. Ma prima di addentarci nelle pieghe di questa inimitabile storia orale degli anni Trenta italiani, varrà la pena dire qualcosa del suo autore.
Come avrete inteso dal necrologio, «Savio» era uno pseudonimo, scelto a coprire un cognome ingombrante come Pavolini. Figlio di Corrado – saggista, drammaturgo, regista, critico letterario e cinematografico, intervistato dal figlio in questa serie -, Francesco era però anche nipote di Alessandro Pavolini, fascista della prima ora, giovane fondatore a Firenze della rivista «Il Bargello», ma soprattutto ministro della Cultura Popolare, catturato e ucciso a Dongo, in fuga al seguito di Mussolini. Poco più che ventenne, il giovane Savio si era segnalato per l’organizzazione di festival teatrali e di rassegne cinematografiche, attività che porterà avanti con buoni risultati fino a divenire il responsabile di alcune rilevanti retrospettive per la Mostra del cinema di Venezia. Diplomatosi in regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica, negli anni Cinquanta firma alcune regie teatrali e televisive e nel 1955 assume la responsabilità della parte cinematografica dell’Enciclopedia dello Spettacolo. L’occasione da critico gliela offrirà «Il Mondo», dove Savio scriverà di cinema dal 1973 al 1976, dimostrando lucidità, precisione e una non comune conoscenza delle diverse cinematografie (le sue recensioni sono state raccolte una ventina di anni fa in un volume dal titolo Il mondo di Francesco Savio, curato da Franco Cordelli ed Emidio Greco). Sono così i Settanta gli anni della sua febbrile consacrazione al cinema, gli anni che non per nulla lo portano a pubblicare i libri per cui rimarrà – almeno tra gli addetti ai lavori – più noto: Visione privata. Il film occidentale da Lumière a Godard(1972), Ma l’amore no (1975) e postumo questo poderoso Cinecittà anni Trenta, che come osserva Aprà «non è un libro “a cura di”, ma un libro “di” Francesco Savio.»
Le interviste raccolte sono di misura diversa, alcune lunghe e articolate, altre brevissime, ad assecondare la diversa propensione degli intervistati a ricordare e raccontare. Senza mai risultare invadente o curioso, Savio sa come condurre il discorso lungo le anse del pensare e del fare cinema durante il ventennio, dando risalto ai modi – spesso comici, si legga quanto racconta Sergio Amidei – con cui ci si avvicinava all’industria del film e poi alle trame produttive, alle gelosie, ai personalismi artistici e politici, al peso del denaro, alla tecnica, fino a quella dialettica molto italiana e mai risolta tra un’inestirpabile provincialismo e la vocazione all’internazionalità. Ne viene non solo una storia culturale del cinema italiano tra le due guerre, ma anche – e forse di più – una storia culturale dell’immaginario popolare di un Paese che, volgendo lo sguardo a quegli anni, ritrova i fremiti di una libertà che, nonostante tutto, non cessava di attraversare le arti. E così, tra la cronaca meticolosa delle opere e dei giorni dell’enorme «Cinecittà anni Trenta», ritroviamo Blasetti che torna senza timidezza a parlare del tempo in cui era convintamente fascista, Camerini dirci che in fondo i suoi film in quegli anni, diversamente da quanto si potrebbe pensare, non avevano poi quel gran peso, Rossellini in più momenti innervosito dalla memoria o Zavattini affermare, con amore per il paradosso, che «il mio discorso neorealistico non ha niente a che fare con De Sica».
Il cinema che ne esce è magia e pericolo, sogno che può tramutarsi in incubo, macchina incontenibile dalla forza mitopoietica senza precedenti e senza pari. Spesso così roboante che può spaventare, cosicché Eduardo, nel confidare il suo amore per i film che ha fatto con il massimo della serietà e dell’impegno, si congeda da Savio osservando che «però, caro amico, fortuna che esiste il teatro».