Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2021
Quel testimone che vide giordano bruno sul rogo
Gli ultimi decenni sono stati molto fecon di per gli studi su Giordano Bruno: sono state pubblicate nuove edizioni sia dei testi latini sia di quelli italiani, nuovi saggi critici, nuove opere di carattere generale, nuove ricerche sulla vita e sull’esperienza intellettuale e filosofica del Nolano. È stato aperto un cantiere, che è tuttora in piena attività.
Per molti aspetti oggi ci troviamo di fronte un Bruno assai diverso da quello tramandatoci da una lunga tradizione che ha coinvolto, come accade sempre nel caso del Nolano, sia l’alta ricerca che la diffusione a livello popolare della sua figura e della sua opera. Questa nuova visione di Bruno si intreccia però a una rinnovata concezione dell’Umanesimo e del Rinascimento che si è venuta anch’essa imponendo negli ultimi decenni e che ormai comincia a diffondersi anche a livello manualistico. Non è stata un’operazione semplice perché è stato necessario sganciare la visione dell’età umanistica e rinascimentale dalle genealogie costruite in epoca moderna; e per farlo è stato necessario riaffermare – operazione indispensabile specie in questo caso – la distinzione tra «storia» e «storiografia». Il Rinascimento quale è stato conosciuto lungo i secoli è infatti, in primo luogo, un «oggetto» costruito dalla storiografia prima illuministica, poi romantica, che ha trasformato quell’epoca straordinaria in un capitolo della «autobiografia» dei «moderni» considerandolo, in questa prospettiva, quale «genesi» di quella che con termine riduttivo si chiama «modernità».
La ricerca della dimensione propriamente storica dell’Umanesimo e del Rinascimento ha generato la necessità di una rivisitazione dei grandi intellettuali umanisti che sono stati, a loro volta, sganciati dai vecchi modelli genealogici e riconsiderati nella loro specificità. Questo è valso per Machiavelli, per fare un grande nome, ed è valso anche per Bruno, finalmente riconsiderato nella propria autonomia filosofica intellettuale e politica, con una nuova attenzione anche alla sua esperienza biografica da cui, come si sa, sono nati il mito e anche la leggenda che hanno lungamente accompagnato il suo nome. Bruno non è un «piccolo Spinoza»...
Da questo punto di vista è particolarmente interessante il lavoro pubblicato ora da Francesca De Robertis concernente i documenti sulla morte di Giordano Bruno: esso getta nuova luce su quel momento drammatico, dal quale – si potrebbe dire pensando alla fortuna di Bruno – tutto è cominciato. Nel suo lavoro De Robertis si concentra in modo particolare sulla lettera che Kaspar Schoppe scrisse al suo maestro Rittershausen dopo avere assistito in prima persona al supplizio del Nolano, descritto in questa lettera in toni e termini che ancora oggi colpiscono per il loro carattere truce e violento.
Giustamente De Robertis insiste sull’importanza di questa lettera. Fino alla seconda metà dell’Ottocento – quando furono ritrovati altri documenti – è stata la testimonianza più sicura e più attendibile della fine di Bruno, al quale per molto tempo, oltre alla vita, è stata sottratta anche la morte sul rogo, di fronte a una folla che assisteva, tripudiando, allo spettacolo. Merito di De Robertis è seguire questa lettera passo passo, mostrandone la genesi, la circolazione a stampa, il rapporto con altri testi dello Schoppe, oltre a presentarne una nuova ed efficace traduzione.
Come si è detto nel libro sono analizzati anche altri documenti concernenti la morte di Bruno, compresi quelli scoperti nella seconda metà dell’Ottocento, prendendo anche posizione in modo garbato, ma netto, rispetto ad altre tesi diffuse in tempi a noi vicini riguardo ad esempio la figura di un avversario implacabile di Bruno, Celestino da Verona, distanziandosi, sulla base di documenti, da veri e propri castelli storiografici che sono stati costruiti sulla sua vicenda.
Un altro libro interessante su Bruno è uscito in questo periodo in Francia: Bruno et Montaigne. Chemins de la modernité, sotto la direzione di due studiosi italiani, Saverio Ansaldi e Raffaele Carboni. Il tema è in effetti molto complicato perché sono evidenti, e note, le differenze di approccio, di prospettive teoriche, di tematiche antropologiche fra Bruno e Montaigne: per molti aspetti si muovono davvero su onde assai diverse, pur lavorando entrambi, e questo va sottolineato, negli anni Ottanta del Cinquecento. Un solo esempio. È l’anima, per Montaigne, la prima responsabile della sua «malattia», e sono i malinconici – cioè i più disposti alla scienza – ad avere massima «propensione alla follia». Basta pensare, dice Montaigne, a Tasso. Una perdita di sé, che è anche perdita del ’libro’, se libro e moi corrono lungo la stessa ruota. Per Bruno, nell’universo infinito, il furore, la follia sono invece vie fondamentali che l’uomo – accidente finito – non può non percorrere anche a rischio della vita per vedere, sia pure in un flash, la prima verità, l’unità.
Due prospettive diverse, ma proprio per questo il libro curato da Ansaldi e Carbone è una lettura molto interessante: perché, ponendosi in una prospettiva di carattere speculativo, si sforza di individuare punti di contatto fra Bruno e Montaigne sia sul piano retorico ed etico sia su quello ontologico e antropologico. È giusto, come sottolineano entrambi, confrontare Bruno e Montaigne per allagare la nostra conoscenza del Rinascimento; e i temi su cui può essere sviluppato il confronto non sono pochi, o di scarso rilievo: la messa in discussione dell’ontologia gerarchica, l’importanza delle differenze e dei legami tra gli esseri, l’idea di un cosmo connotato dal divenire, una visione problematica – e per certi versi drammatica – della civilizzazione e del progresso dei popoli. Un libro originale, che conviene leggere.