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 2021  maggio 16 Domenica calendario

Biografia di Jerry Calà raccontata da lui stesso

Gli eroi sono tutti giovani e belli, canta Guccini. Jerry Calà è prossimo ai 70, manca poco più di un mese, e “non sono bello, piaccio” è il suo mantra da una vita; eppure per migliaia e migliaia di persone è una sorta di eroe, di trasposizione dei desiderata più comuni, è la congiunzione tra una serie di stereotipi di leggerezza e divertimento concentrati in un unico corpo.
Jerry Calà è la Sardegna, anzi la Costa Smeralda.
È Cortina vista con l’occhio del suo personaggio, Billo, e di chi sa vivere tra le maglie della ricchezza altrui.
È la Versilia, la Capannina.
È gli anni Ottanta.
È lo Yuppie vanziniano.
È il seduttore spesso sedotto.
A lui quasi nessuno dà del lei: “Qualcuno ci prova, ma poco dopo cedono al ‘tu’”.
Jerry Calà è un brand. È uno dei pochi che ha retto al frazionamento dei social. “Grazie, mi fa piacere; (ci pensa) la mia fortuna è quella di avere un figlio 18enne che mi ha svecchiato, e spesso ripenso alla canzone di Bertoli quando canta ‘vivo con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro’”.
Suo figlio cosa le chiede della sua storia?
Non ha grandi curiosità perché sin da piccolo ha partecipato alle riunioni di “famiglia”, quelle con Oppini, Smaila, Salerno e Abatantuono, quindi ci ha sentiti raccontare di tutto, ridere, le battute. Sa bene chi è suo padre.
Non gli nasconde nulla?
(Prende tempo) Sono abbastanza un libro aperto, poi ognuno ha i suoi segreti.
Come lei chiuso nel bagagliaio di una Volvo?
Questa arriva da Nini Salerno.
È vero.
(Sorride) Va bene, ma erano gli anni Settanta, c’era il terrorismo, spesso si incrociavano i posti di blocco; noi avevamo finito una serata, ero stravolto e avevo bevuto qualche bicchiere, così per dormire, mi sono piazzato lì dentro, fino a quando la polizia ci ha fermato con il mitra, e i miei amici, stronzi, non hanno avvertito della mia presenza. Hanno aperto il portellone e mi sono trovato davanti ai mitra. Sono solo riuscito a urlare: “Non sparate!”.
È nato in Sicilia, ma è milanese, è veronese, quasi cittadino onorario sardo e di Cortina. È apolide.
Mi chiamo Calogero, un nome che mi ha creato qualche problemino nella Milano anni Cinquanta; a scuola, quando era il momento dell’appello nel cortile, non rispondevo mai presente, altrimenti avrebbero riso tutti.
Lo ricorda in un suo film.
In Un ragazzo e una ragazza non rivelo mai il mio nome a Marina Suma; dopo un bacio mi chiede: “Come cavolo ti chiami?”. “Calogero”. “Scusa”. È una battuta liberatoria.
Quando la consapevolezza del suo valore?
Poco a poco; negli anni Sessanta, a 16 anni, suonavo la chitarra in un complessino di Verona, ero il più grande, e già allora ho capito la potenza della strizzatina d’occhio dal palco; poi quella strizzatina è stata affinata nella fase con I Gatti e ha svelato le mie capacità comiche; (ci pensa) la mia Accademia d’arte è stata direttamente il palcoscenico.
Come il Derby…
Abbiamo debuttato nel 1971, vivevamo nell’albergo sopra il locale: il pomeriggio scendevamo per le prove e la notte lavoravamo.
L’albergo serviva pure alle prostitute.
(Ride) Qualche coppietta entrava.
Secondo Mauro Di Francesco all’epoca era facile perdersi.
Vabbè, non esageriamo.
Lo racconta anche Paolo Rossi, parla di celebri criminali…
Diciamo che la platea era molto variopinta, il foyer lo frequentavano persone di diversa estrazione; io avevo vent’anni, arrivavo da Verona, non capivo proprio tutto.
Ha rischiato di perdersi?
No, perché non ero da solo, ed è stata la mia fortuna; eravamo un gruppo, ci difendevamo e forse dei quattro ero il più scapestrato: se esageravo, gli altri mi richiamavano all’ordine.
Più scapestrato lei o Abatantuono?
Bella coppietta: quando uscivamo di notte sembravamo i protagonisti di Attenti a quei due; in quegli anni Diego curava le luci del nostro spettacolo, anche se in realtà era un faro solo, e seguirci forse gli ha trasmesso qualcosa; poi a quel tempo il Derby esprimeva il top: Cochi e Renato, Paolo Villaggio ed Enzo Jannacci.
Chi la intimoriva?
Jannacci, quando parlava non lo capivo (lo imita benissimo); Enzo era anche direttore artistico, così ce lo ritrovavamo alle prove, e se dava consigli andavamo nel panico per tradurli.
Nella vita da cosa è sfuggito?
Per tanti anni al matrimonio: mentre i miei amici, a partire da Smaila, cadevano uno dopo l’altro, rappresentavo l’ultimo baluardo della scapolaggine; a un certo punto, quando alle serate tutti hanno iniziato ad arrivare con le donne, è finita l’epoca di noi stretti in una macchina pronti all’avventura.
Da amarezza.
Mi dicevano: “Se ci sono le mogli, non farti vedere mentre vai in giro a broccolare, altrimenti pensano male di noi”. Da lì è partita la decadenza del gruppo.
Le donne sono la costante…
Mi sono dato da fare.
Dario Cassini ha raccontato al Fatto del sesso durante le riprese de “I ragazzi della notte”
(È un po’ infastidito) Ero il regista, cercavo di tenerli a bada, puntavo al risultato, ma capivo che c’era movimento.
Ansia da prestazione professionale?
Sempre, è fondamentale, ancora oggi prima del sipario penso “ma chi me lo fa fare?”; poi inizia lo spettacolo ed è la magia; l’ansia mi assale pure quando firmo la regia.
In 50 anni di carriera le critiche non sono mancate.
Mi hanno detto qualsiasi cosa, però quando sono andato al Festival di Berlino con il film di Marco Ferreri (Diario di un vizio), una sera entro in un ristorante e lì il Gotha della critica italiana si è alzata per applaudirmi: “Abbiamo capito che sei un bravo attore”.
Già lo sapeva?
L’avevo intuito grazie a Sapore di mare: quando ho rivisto il film, sul finale, mi sono stupito del mio sguardo malinconico rivolto alla Suma; (ci ripensa) a Berlino i complimenti non sono arrivati solo dalla critica…
E da chi altro?
Da Herzog; durante la proiezione ero in ultima fila, a un certo punto un signore mi rivolge la parola: “Hai figli?”. “No”. “Mi raccomando, quando li avrai mostragli questo film: ne devi essere orgoglioso”. Era lui.
In che lingua avete interagito?
(Momento di orgoglio) Ho studiato al Classico, sono un grande latinista e parlo il tedesco.
Tra poco sono 70 anni.
Minchia ragazzi (ripete più volte e con differenti intonazioni sospira: “Sono 70”).
A 40 come immaginava i 70?
Da ragazzo ritenevo anziani i 45enni, quindi nella mia testa il 70enne era un vecchietto; (cambia tono) anche quando è arrivato mio figlio mi sono preoccupato per l’età: avevo 52 anni e temevo di non vederlo a lungo. E invece sono qui e non sono male, ho ancora un palco e un pubblico.
Quanto le è costato il Covid?
130/140 serate, ma la questione è più psicologica: mi ero abituato a stare i weekend fuori, a girare l’Italia con il mio gruppo. Il rischio è stata la depressione.
La depressione l’ha mai conosciuta veramente?
No, neanche dopo l’incidente (nel 1994 ha rischiato di morire in uno scontro tra auto): sono stato sei mesi in carrozzina, ma ero talmente felice di averla scampata da rifiutare l’invito di mia madre.
Quale?
Voleva che andassi da lei; inizialmente avevo accettato, ma poi ho preso una suite al piano terra di un albergo romano, ho trovato un ragazzo che mi dava una mano, e mi sono divertito come poche altre volte: tutti volevano venire da me, tutte a curarmi.
Parafrasando Guido Nicheli, i suoi 70 anni sembrano un giro di Rolex.
Non lo nego, sono una persona fortunata, soprattutto da quando ho eliminato l’angoscia del lavoro: prima dell’incidente, quando usciva un mio film, alle 11 di sera chiamavo non so quante cassiere dei cinema per sapere com’era andato al botteghino. Oramai conoscevo i loro nomi. Ed ero insopportabile.
Un rimpianto.
Quando ho chiuso il rapporto con De Laurentiis e non ho continuato a girare le “Vacanze di Natale” con i miei amici; però è anche vero che se avessi continuato non sarebbe arrivata l’occasione di Ferreri.
Com’era Ferreri?
Un uomo dolcissimo, gentile; la nostra prima telefonata è stata surreale: Nicoletta Ercole mi aveva avvertito che mi cercava, ma non le credevo, poi mi squilla il cellulare e sento: “Jerry Calà? Sono Ferreri. Come sei da attore drammatico?”. “Bravissimo, maestro”. “Bene, allora girerai con me”. E attaccò.
La notte porta segreti.
Vuol sottintendere che ho visto cose che voi umani…?
Un po’. Quanto è importante tacere?
Fondamentale, anche nei confronti di chi ti ha mostrato un lato nascosto, senza volerlo; è questo che permette alle amicizie di durare e genera rispetto nei tuoi confronti; (cambia tono) non sopporto chi mi ferma e sornione aggiunge “ti ricordi quella volta, ti ho visto…”, penso sempre: “Ma fatti i cazzi tuoi!”.
La Venier narra che non vi facevate i fatti vostri con i fidanzati della figlia…
Cavolo, Mara li terrorizzava: quando venivano a prendere Eli, gli spiegava che se non la riportava a casa uguale com’era, gli avrebbe tagliato tutto.
A cosa ha rinunciato?
(Sospirone, ci deve pensare a lungo) Forse alla vita di un normale ventenne e al rapporto con la mia fidanzata dell’epoca. Ragazza bellissima. La portai a Milano e si spaventò dall’ambiente dal Derby, fino a quando mi pose davanti al bivio tra una vita classica e quella che si prospettava con me. Soffrii molto.
Se si guarda indietro, cosa le viene subito in mente?
Io e mio padre a Verona, davanti al cinema, mentre da buon siciliano mi porta a vedere Franco e Ciccio; mentre guardo il manifesto del film, penso: “Chissà se un giorno vedrò il mio nome scritto così”.
Papà orgoglioso di lei?
All’inizio no, mi voleva ingegnere o medico, invece abbandonai l’università dopo un anno: una sera venne Umberto (Smaila) a casa nostra, mi chiese se avevo voglia di unirmi al gruppo e partire e, invece di rispondergli a voce, gli saltai addosso come un bambino. Ed è iniziata la storia di Jerry Calà.
Chi è lei?
Io sono Billo!
(Billo in “Vacanze di Natale” cantava: “Maracaibo, mare forza nove. Fuggire sì, ma dove Za za…”)