Corriere della Sera, 16 maggio 2021
L’Italia segreta di Ettore Bernabei
Otto anni prima che le Brigate Rosse lo rapissero incitando il popolo a «portare l’attacco al cuore dello Stato imperialista delle multinazionali», Aldo Moro aveva sostenuto una tesi drastica sulla Repubblica Italiana. «Secondo lui non esiste più lo Stato», è una valutazione che Ettore Bernabei trascrisse per sé dopo un colloquio dell’8 gennaio 1970 con il futuro presidente della Democrazia cristiana. A giudizio di Moro, continuava l’allora direttore generale della Rai, «il partito ha perduto ogni sua capacità di guida».
Abituato a dirigere luci della ribalta senza volerle avere addosso, Bernabei era stato da Moro alla Farnesina. In via riservata aveva dovuto consultarlo non per la Rai, ma nel ruolo ufficioso di consigliere di Amintore Fanfani, un altro democristiano considerato «cavallo di razza» della forza politica di maggioranza relativa. Il ministro degli Esteri era stato ascoltato su un’ipotesi avanzata dal segretario della Dc Arnaldo Forlani: portare Moro ad assumere di nuovo la carica di segretario del partito, già ricoperta, e far eleggere Fanfani presidente della Repubblica.
Nel riepilogare la risposta del titolare della Farnesina su quel progetto poi non realizzato, interlocutoria, Bernabei raccolse elementi che oggi alla luce di eventi successivi risaltano. Moro fornì «un quadro molto pessimistico della situazione interna italiana e particolarmente della Dc». Lo statista che nel 1978 le Br avrebbero assassinato manifestava fastidio per una condizione «di crisi». Non escludeva di essere ministro per l’ultima volta («in attesa di ritirarmi definitivamente»). Il 1970 era l’anno successivo al 1969 delle proteste operaie e della strage fascista di piazza Fontana. Benché animata da tutt’altro spirito, la consapevolezza della crisi dello Stato che Moro avvertiva coincideva in parte con una premessa della teoria sostenuta dai suoi carnefici. L’asserito «Stato delle multinazionali», scrissero le Br nel primo dei comunicati su Moro prigioniero, avrebbe dovuto la sua nascita a una crisi per effetto della quale, in Europa, nel 1978 gli «Stati-nazione» diventavano «superati».
I democristiani che le Br definivano «forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato» erano però molto diversi da come li dipingevano, in analisi fanatiche e sommarie, i terroristi. Con Ettore Bernabei, il primato della politica. La storia segreta della Dc nei diari di un protagonista, edito da Marsilio, il giornalista Piero Meucci ha ricavato dagli appunti del consigliere di Fanfani un libro utile per capire la politica nella cosiddetta Prima Repubblica. In numerosi tratti, i diari collidono con interpretazioni di quel periodo fuorvianti e comuni. Per esempio, nei fogli del cattolico Bernabei, personalità alla quale veniva dato ascolto in Vaticano, ricorrenti sono le parole «padroni» e «padronato». Due vocaboli alquanto estranei al lessico della Confindustria, organizzazione che pure era tra i pilastri dell’establishment. Gianni Agnelli, nei diari, non è trattato certo da idolo. Dopo aver ricevuto a colazione nella propria casa di via Tiberio a Roma l’ambasciatore americano Graham Martin, quasi con gusto Bernabei prese nota della diffidenza dell’ospite verso il proprietario della Fiat: «Tiene a dire che ha rotto i rapporti perché troppo implicato nei finanziamenti di movimenti di sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Potere operaio)».
L’affermazione non è accompagnata da riscontri. Il valore del libro sta però nel permettere di osservare dinamiche nelle quali di monolitico non esiste nulla, a cominciare dalla Dc e dal legame tra partito di cattolici e Chiesa. Come una sonda consente di vedere nel corpo umano aspetti invisibili da fuori, la parte dei diari scritta tra 1956 e 1984 selezionata da Meucci mostra lati della realtà non tutti evidenti all’esterno di una cerchia ristretta di italiani. Per soddisfare l’ambizione di Fanfani di essere capo dello Stato, il suo uomo di fiducia invitava a casa l’ambasciatore sovietico Nikita Ryzhov nella convinzione che i voti del Partito comunista italiano, sui titolari del Quirinale, fossero «decisi a Mosca». Il fattore che indusse la Dc alle intese con il Pci nella stagione della Solidarietà nazionale risulta essenzialmente un proposito di fiaccare e dividere i comunisti. Altro che convergenza ideale di due filoni politico-culturali prima contrapposti. E il proposito democristiano sarebbe stato anche di Moro, da tanti descritto in maniera diversa. «Mi è sembrato abbastanza tranquillo sui primi risultati della sua manovra avvolgente messa in atto per contenere il Pci e se fosse possibile imbrigliarlo prima e metterlo in crisi poi», scrisse di lui Bernabei nel 1977.
Sebbene inquadrato come figura di alta statura, Moro venne ritratto anche come «gran sceicco», «incantatore di serpenti» e ascritto alla categoria degli «esperti dell’ipnosi». I diari insomma offrono una rassegna di robustezza, destrezza e spesso di venature di pochezza di vari personaggi della classe dirigente italiana cresciuta nel dopoguerra. Nel caso dell’autore, del quale ricorre oggi, 16 maggio, il centenario della nascita, la solidità politica e culturale è indubbia. Talmente convinta delle proprie ragioni, da rivelarsi in un caso anche rigidità macchiata da pregiudizi retaggio del passato. Nelle pagine del 1969 Bernabei attribuì a manovre straniere la crescita di movimenti italiani di estrema sinistra, accusò «gli inglesi» di esserne ideatori. «I finanziatori sono in Israele dove ormai si organizza una forma novella di nazismo», aggiunse. Accostare Stato ebraico e nazismo è inammissibile. Nel 1992, quando fondò la casa di produzione Lux Vide, Bernabei volle che con gli sceneggiatori di episodi della Bibbia lavorassero esperti cattolici, protestanti, ebrei, musulmani. Decisamente meglio questa scelta di quella sua remota frase.