Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  maggio 15 Sabato calendario

Il genio di una città abita nei suoi tombini

Prima che la Morte Rossa, mascherata da Covid 19, apparisse nel bel mezzo del gran carnevale planetario all’insegna del consumo compulsivo, rompendo le uova nel paniere alla globalizzazione coi suoi stessi mezzi, forse non eravamo più abituati a chiederci che cos’è una città. Ma la pandemia ha modificato profondamente la nostra percezione della realtà proliferante, caotica e vitale nella quale eravamo soliti aggirarci senza farci troppe domande, accettandola come un dato di fatto o addirittura di Fato. Chiusure diurne e coprifuoco notturno hanno reso di colpo spettrale quel «paesaggio di pura vita» (il copyright è di Hugo von Hofmannsthal) che costituisce la fisionomia della città moderna. Eredi dell’Uomo della Folla di Poe, che «non vuole né può star solo», abbiamo scoperto la dimensione fantomatica del vagabondaggio per strade e piazze deserte. Quei luoghi senza ricordo, che attraversavamo distratti e frastornati dall’ininterrotto mutamento di caffè, ristoranti e negozi, ci sono apparsi improvvisamente perturbanti, ma anche «visti per la prima volta».
Ecco: è con questa ritrovata capacità percettiva, attenta al minimo e al fugace, che dobbiamo accostarci alla sorprendente flânerie suggerita da Vittorio Magnago Lampugnani in Frammenti urbani - I piccoli oggetti che raccontano le città, appena edito da Bollati Boringhieri, con un ricco apparato fotografico, nella traduzione dal tedesco di Claudia Tatasciore. Architetto e storico dell’urbanistica di prestigio internazionale, Lampugnani aggiunge alle profonde conoscenze dello studioso le risorse d’una scrittura accattivante, agile nel trascorrere dall’analisi specialistica ai richiami cinematografici e letterari. La chiave di volta che sorregge l’intera architettura del libro è condensabile in quella celebre citazione: «Dio è nei dettagli» che ricorre e si rincorre, con senso di volta in volta mutato, da Gustave Flaubert ad Aby Warburg fino a Mies Van der Rohe. Non a caso, la tecnica usata da Lampugnani per raccontarci nascita e sviluppi del moderno tessuto urbano si richiama esplicitamente al modello dello storico dell’arte Giovanni Morelli, che desumeva la paternità dei dipinti da dettagli come mani, orecchie o pieghe dei tessuti: «Anche i dettagli di una città» scrive Lampugnani «ci permettono di acquisire dati sul suo passato, sulle sue peculiarità e perfino sul suo carattere.
I piccoli oggetti dello spazio urbano sono in effetti frammenti, indizi attraverso cui si può ricostruire in maniera emblematica lo sviluppo della città nella sua interezza». In una panoramica dall’antichità a oggi, svariando da Parigi a Berlino, da Roma a Londra, da Milano a Zurigo, l’autore analizza nascita, evoluzione e destini di piccoli oggetti architettonici che identificano il mood d’una determinata città e condizionano le vite dei suoi abitanti, senza che questi ne siano pienamente consapevoli. Si parte con il chiosco (dal medio persiano kusk) e s’arriva al tombino, parente prossimo della tomba, passando per cabine telefoniche e fontanelle, fermate d’autobus ed entrate della metropolitana, numeri civici e semafori, vetrine e marciapiedi, panchine e orologi stradali, recinzioni e illuminazioni, per un totale di 22 oggetti che, elencati alla rinfusa, sembrerebbero usciti dalla caotica palandrana di Harpo Marx. E invece, suddivisi in tre ben ordinate sezioni (Microarchitetture, Oggetti, Elementi), si rivelano tessere indispensabili a ricostruire la fisionomia urbana che ci ha modellati. Più del Colosseo, del Big Ben o della Tour Eiffel, sono loro a tingere ogni città col suo colore inconfondibile, ammobiliando le strade urbane fino a trasformarle (mai come in questo periodo ce ne siamo resi conto) in autentiche abitazioni di quel poderoso soggetto collettivo, quell’essere «sempre inquieto, sempre in movimento», che secondo Benjamin è la massa. Un’idra di cui tutti facciamo parte, che nel corso dei secoli ha cercato nella città il luogo ideale per soddisfare i suoi sogni e i suoi bisogni, a cominciare da quelli corporali.
Per questo appare particolarmente istruttiva la voce sui bagni pubblici, incluso l’esilarante ammonimento d’un affresco pompeiano nei pressi di una latrina: cacator, cave malum («cacatore, guardati dal male»). Passare poi dai cessi ai monumenti non significa necessariamente trascorrere dalle stalle alle stelle. Lo testimonia ironicamente Majakovskij, definendo il progetto del Monumento alla Terza Internazionale «il primo monumento senza barba», a differenza di quelli (troppi) dedicati a Lenin. Senza barba di retorica è, per nostra fortuna, il piccolo monumento che Frammenti urbani tesse all’opera dei molti e a volte dimenticati protagonisti della moderna epopea urbana: architetti e artigiani, politici e pittori, utopisti e vetrinisti. Con la tecnica del cavalier Dupin nella Lettera rubata, Lampugnani ci fa riscoprire gli oggetti nascosti bene in vista nella vita quotidiana delle nostre città. Non vediamo l’ora di poterle abitare di nuovo a viso scoperto.