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 2021  maggio 15 Sabato calendario

Intervista al poeta John Freeman

Figure come quelle di John Freeman - scrittore, poeta, ex direttore di Granta, executive editor di LitHub, critico letterario, fondatore di una rivista che porta il suo nome, Freeman’s, firma del New York Times e della Paris Review - ci ricordano che la letteratura è sempre incarnata nel mondo, che scrivere è un atto politico, così come tutto quello che gira intorno alla scrittura: i meccanismi editoriali, il contesto, la scelta di cosa pubblicare, la continua messa in discussione di un canone. Freeman ha ridisegnato più volte il panorama letterario contemporaneo facendo esplodere le contraddizioni di un immaginario americano, tra un eterno mito della frontiera e un’endemica diseguaglianza sociale. Oggi esce in Italia la sua raccolta di poesie, Mappe, che in un certo senso si fa carico della stessa ricerca che Freeman ha portato avanti come editor: interrogare il paesaggio e le identità nel loro incessante processo trasformativo.
In "Mappe" ripercorri i tuoi viaggi e i luoghi della tua vita. Il libro è uscito negli USA nel 2017. Rileggere oggi quelle poesie, dopo questo lungo periodo di confinamento globale, ha aggiunto una forma di nostalgia ulteriore?
«La nostalgia per qualcosa che non si può avere è lievemente diversa da quella per qualcosa che potrai riavere. Per una volta tanto mi sono sentito nostalgico della California, anche se certe parti della California non sono così cambiate, quindi era una nostalgia non profondissima. Quella che provo per la New York in cui sono arrivato da ragazzo, a metà anni ’90, è infinita, perché quel luogo non tornerà mai più, questo a prescindere dalla pandemia. Ma la nostalgia è anche verso le persone, e credo che tutti quanti, dopo questo periodo, abbiamo delle persone da cui non potremo più tornare, quindi è come se fossimo diventati più familiari con la presenza dei fantasmi. Inoltre mia madre si è ammalata ed è morta mentre scrivevo il libro, è una delle perdite centrali che ha dato un certo colore a tutte le poesie, anche quelle che non riguardano direttamente lei».
"Mappe", in effetti, è un libro sulla perdita e sul lutto. Sono due temi iper-poetici, quasi dei "tòpoi". Da editor, sentivi una certa responsabilità e un certo timore ad affrontare quelli che possono essere considerati cliché letterari?
«Da editor leggi tanti testi, e riconosci dei pattern. Uno dei pattern che ho visto nella poesia è una forma di cerimoniale. Abbiamo pochi riti e cerimonie nella nostra vita moderna. Attraverso forme familiari, attraverso il ritmo, la musica, volevo provare a rendere meno spaventoso il fatto di vivere in un mondo dove potremmo perdere tutto. E poi volevo anche seguire l’ispirazione del titolo, che può essere un altro tòpos: mappare la propria esperienza quando ti avvicini alla mezza età e cerchi di trovarci un ordine. Un modo per farlo è legarla ai luoghi e chiederti se quei luoghi siano responsabili dell’esperienza o ne siano solo i custodi».
In Europa non abbiamo tanto il concetto di "grande romanzo europeo", ma i romanzi europei più interessanti degli ultimi anni hanno spesso avuto a che fare con la dimensione del viaggio: il dislocamento, la copresenza di città diverse. Come vedi oggi il "grande romanzo americano?"
«Roth diceva che i romanzieri davano il meglio di sé quando parlavano di un posto, ma lui era ossessionato da New York e dal luogo in cui era cresciuto, per cui continuava a tornare a Newark. Esistono dei romanzi simili a questa tipologia, diciamo dei cugini, e sono i romanzi dell’arrivo: storie di migrazione, di approdo e di adattamento al nuovo luogo. Ma quello di cui parli tu è molto più simile a come si vive oggi in America in un mercato del lavoro iper-flessibile. La precarizzazione estrema che diventa esistenziale e che abbiamo visto in un film come Nomandland. Ovviamente narrazioni del genere comportano una grande vastità di personaggi perché si moltiplicano gli incontri e le persone che ci lasciamo dietro, quindi aumentano anche i punti di vista».
Credi che in questo senso il vecchio concetto situazionista di "psicogeografia", che hai usato anche in "Mappe", possa rivelarsi uno strumento utile per capire e raccontare il contemporaneo?
«Credo che il concetto di psicogeografia, usato anche solo esteticamente, può rivelarsi uno strumento politico. Penso a scrittori come Benjamin, Woolf o Baldwin. Se pensiamo soprattutto alla rappresentazione delle città in un momento come questo dove il gap tra ricchi e poveri si fa sempre più profondo, la psicogeografia può diventare un modo per giustapporre storie e realtà molto diverse. È evidente, ad esempio, in un posto come San Francisco, con lo sviluppo high-tech da un lato e la presenza sempre più massiccia di homeless dall’altro».
E come fare a raccontare la subalternità senza che diventi un’appropriazione culturale?
«Mi viene in mente Jacob Riis, e il suo libro Come vive l’altra metà. Riis si era trasferito a fine ‘800 dalla Danimarca a New York lavorando come carpentiere, ambulante… Poi ha cominciato a documentare da giornalista e fotografo le condizioni in cui vivevano i migranti negli slum della città fino a sensibilizzare le classi più abbienti e la politica. Per lungo tempo quel libro è stato un modello, oggi siamo più sensibili a come raccontare le storie degli altri nel rispetto anche della loro privacy, perché – ad esempio – chi vive per strada è, per sua natura, esposto. Io stesso ho un fratello che è stato homeless, e questo di per sé non significa nulla, non vuol dire che sia più sensibile nel parlare di chi non ha una casa o nel trasformarlo in un personaggio, ma di sicuro so che mi interessa la versione non ufficiale dello spazio pubblico, mi interessa vedere quello che esiste sotto gli strati di narrazioni stilizzate e stereotipate a cui siamo abituati. Mi fa porre una questione etica sul "consumo" dei luoghi, allo stesso modo in cui se dovessi parlare di Roma non ci metterei uno seduto al bar che beve un espresso».
Come editor sei sempre stato attento a scoprire nuove voci, diciamo "marginali", allo stesso tempo però mi rendo conto che nel ruolo di editor molto spesso si trovano ancora "maschi bianchi", e tu rientri nella categoria. Come la vivi?
«Ho imparato a non dare per scontato né me stesso né la mia formazione. Sono cresciuto leggendo soprattutto maschi bianchi, e ora di sicuro non è più così. Il familiare smette di essere tale. Ho iniziato a leggere scrittori non bianchi, e poi non americani, e di sicuro non è stato difficile trovare talenti. Al tempo stesso una delle cose difficili di essere un editor oggi è abitare un ambiente complesso di scrittori e lettori che in maniera naturale – che sia per curiosità o desiderio – vogliono leggere scrittori simili a loro, e può diventare una reazione automatica».
Pensi che il concetto di "identity politics", in questo senso, corra il rischio di una brandizzazione?
«Di sicuro internet è in parte responsabile di un effetto del genere, ma è pure vero che se sei un nero in America sei in una situazione di pericolo e quindi è comprensibile riconoscersi e rivendicare quell’identità. Ed è anche necessario. Io non penso che una cosa debba escludere l’altra, si può essere rispettosi della storia, dell’etnia, dell’identità sessuale di qualcuno e al tempo stesso uscire dal proprio corpo per lasciare la propria "tribù" ed entrare in un’altra. Forse dovremmo smettere di pensare che ogni traduzione, ogni transazione, significhi sottrarla a qualcun altro. Quindi sarebbe bello pensare che un libro esca simultaneamente a quello di qualcun altro, e non che prenda il posto di quello di qualcun altro. Mi piace pensare a un universo quantico, a dimensioni multiple in cui tutto possa finalmente coesistere».