Tuttolibri, 15 maggio 2021
Lunga intervista a Gilberto Severini
Dal suo balcone nel centro di Osimo lo sguardo spazia dalle colline di Loreto ai colli di Recanati. Un colpo d’occhio che contiene sia la dedizione alla Madonna sia la malinconia di Leopardi. Due elementi che vibrano entrambi nella bibliografia scarna eppure elegantissima di Gilberto Severini. L’esordio in poesia nell’81, poi una serie di romanzi con Transeuropa, il marchio blasonato da Tondelli, un passaggio da Rizzoli, e l’ultima prova tre anni fa (I dilettanti) con Playground, la casa editrice che ora ripropone tutto il suo catalogo con l’intenzione meritoria che non vada dissipato e resti chicca per bouquinistes. In pensionissima da tempo, oggi ottantenne, Severini ha lavorato nell’ufficio stampa della provincia e di vari assessorati, per poi collaborare con tv e giornali su cinema e teatro. Memorabile nel suo curriculum un servizio dalla mostra del cinema di Pesaro, la benemerita rassegna inventata da Lino Miccichè (critico dell’Avanti!, c’è stato un tempo in cui i giornali di partito esistevano e producevano cultura...) dedicata nel 1980 al cinema sovietico. «Era nata una sfida a tennis tra Nikita Michalkov e Nanni Moretti, il nostro compito era quello di tirar tardi con il russo e farlo bere il più possibile - ricorda Severini - . Scolò una quantità impressionante di alcolici e andò a dormire tardissimo. Ma l’indomani sconfisse lo stesso Nanni. Filmai l’incontro, e il documento esiste ancora in qualche scantinato della Rai».
Nei 13 romanzi pubblicati ricorre la medesima umanità, che fa i conti con i vantaggi e le complicazioni della solitudine, le impotenze, le ritrosie e le esuberanze della vita in provincia. E soprattutto con l’amore omosessuale che non può ancora permettersi il pride, ma deve accontentarsi di rinuncia, ombra, marginalità, sberleffi (se non addirittura qualche percossa) perché nella cattolicissima Marca, negli anni del pre e dopo boom, il coming out era impensabile, talvolta persino con se stessi. Sbaglia però chi intuisce una prosa bigia o corrucciata. Severini, al contrario, è sereno come l’aria turchese dei cieli che sovrastarono la sua infanzia e gli sguardi di Girolamo Giovanni Da Camerino. Perché tutto è felice nel suo mondo smerigliato, anche la tristezza. «Tanto vale - dice in una sua poesia - aver ritmo, tenerezza, allegria/come se si restasse anche se si va via».
Provincia e omosessualità, sono i suoi temi ricorrenti, perché?
«Nella provincia ci sono nato e vissuto a lungo. Era un teatro familiare per i miei personaggi. Che del resto sono reinvenzioni di persone conosciute davvero, mescolandone i tratti, teatralizzando gli episodi delle loro vite. Tutto questo non per riprodurre la realtà, ma per cercare attraverso la finzione la loro verità».
Perché questi personaggi e non altri?
«Perché, credo di capirlo ora a distanza di molti anni da quando ho cominciato a scrivere, mi interessava parlare di persone difficili con vite difficili forse per rivelare quanto anche queste vite marginali e complicate abbiano in sé dei momenti che le rendono poetiche e a loro modo, belle».
Il "Signor Aldino" è reale?
«Fu il primo choc della mia vita. Naturalmente il nome era un altro, c’era però questo signore di nobili origini, sempre elegante, intorno al quale gravano leggende alimentate dalla sua vita disinvolta. Non capivo perché quel gentiluomo venisse chiamato con un diminutivo nonostante avesse superato i sessant’anni. Facevo domande, ma tutti fingevano di non capire. Rispondevano con mezze frasi sbrigative, per pudore, per rispettare la mia infanzia, e anche la sua "singolarità". Vivevamo in una cultura cattolica estremamente bigotta, il senso del peccato era presentissimo. E quell’uomo era sicuramente un peccatore, ma non capire in che cosa consistesse il suo peccato era fonte di profondo turbamento».
Quanto c’è di autobiografico o di terapeutico nei suoi libri?
«Di autobiografico c’è quel po’ di conoscenza di se stessi che si riesce ad ottenere. E’ lì che si trovano le emozioni da attribuire ai personaggi. In quanto alla terapia della scrittura, quando ho cercato di usarla è stato un fallimento. Di un film cinese, di cui ho dimenticato tutto, ricordo soltanto la prima lezione che un vecchio maestro di violino impartisce al suo allievo: "Se sei triste non suonare". Ascoltarla è stata un’illuminazione. Bisogna scrivere con energia, possibilmente in buona salute, altrimenti non funziona. Se si è depressi, meglio una passeggiata».
Il mondo nei due romanzi sta cambiando, arrivano le fabbriche, la tv, nuove libertà. Cambiava anche la dimensione gay
«La parola "gay" arrivò tardi. C’erano invece parole meno allegre, usate anche ora, per nominare i diversi. La versione beneducata era invertiti. Tra i più disinvolti e ironici si diceva: "Mi sa che quello è così. Dicono che sia un po’ così". Mancando la parola non c’era la cosa così come la intendiamo oggi. Quella dimensione era sotterranea, misteriosa, spesso attraversata come un rito di passaggio adolescenziale per molti; per altri vissuta come la rivelazione della propria natura con cui convivere ciascuno come poteva. Il cambiamento arrivò nei pressi del ’68, forse un po’ prima».
Perché nei suoi romanzi torna quasi sempre al passato?
«Ogni tanto ho provato a scrivere del presente, ma è difficilissimo trovare la misura giusta per raccontarlo. Tra l’altro questo è un presente in cui le persone creano da sole il proprio personaggio sui social. Ognuno ha il suo doppio, il suo avatar...».
Le pagine abbondano di preti, predicatori, confessionali, messe... quanto contava il cattolicesimo per tenere insieme quel tipo di vita?
«Dalla politica all’intrattenimento, il cattolicesimo ha scandito per decenni la vita della comunità. Nel dopoguerra i grandi predicatori erano seguiti da folle da concerto rock. La festa del patrono, dalla fiera alla processione e ai fuochi d’artificio, era l’evento dell’anno. Oltretutto il patrono di Osimo, dove allora vivevo, è San Giuseppe da Copertino, citatissimo da Carmelo Bene. Molte attività sportive nascevano negli oratori, ma anche compagnie teatrali e cineforum. Sino alla prima metà degli anni Sessanta la centralità della parrocchia è evidente. Poi lentamente la presenza della Chiesa si attenua, si fa certamente meno visibile, meno attraente soprattutto per i giovani».
Il dissidio interiore tra fede cattolica e omosessualità che si trova nei due romanzi è lo specchio di situazioni reali e diffuse nel mondo di provincia?
«Per alcuni cattolici di particolare sensibilità questo dissidio c’era, ma non generalizzerei. La sartoria e Il praticante rappresentano un piccolo mondo, con dei personaggi forse interessanti perché particolarissimi. Credo che, per i più, il problema fosse passare inosservati. Gestire quella parte della propria vita con la massima riservatezza. Essere insospettabili».
Quanto contavano le differenze sociali nei rapporti gay?
«Pochissimo o niente. Per quello che ne so, un ragazzo di buona famiglia con quelle inclinazioni trovava molto meno imbarazzante rivolgersi a un giovane operaio, più disinvolto e disinibito, piuttosto che agli amici abituali. In qualche caso l’omosessualità poteva essere davvero un ascensore sociale, mentre gli altri tentativi di salire dalla propria condizione funzionavano poco. Ma parliamo ancora di anni lontani dai cambiamenti della fine degli anni Sessanta, lontani dalle contestazioni studentesche, dalle liberazioni sessuali...».
Carletto fa un gran vanto delle avventure vissute a Udine durante il servizio militare: che cosa significava la naja nella gioventù di provincia?
«Premetto che non ne ho esperienze dirette, fui esonerato perché "figlio unico di madre vedova", era questa la formula. Però dai tanti amici so che per chi era sempre vissuto in provincia finiva per avere il significato di un viaggio iniziatico, la prima volta che si affrontava la vita senza le protezioni della famiglia di allora. E una fonte di esperienze imprevedibili. "Ho fatto il militare a Cuneo", è una delle più celebri battute di Totò per affermare che aveva la patente di uomo di mondo».
C’è stata davvero una sartoria nella sua infanzia?
«In effetti mio nonno ne possedeva una. Era un personaggio particolare ed esuberante, cavaliere della repubblica, membro del partito popolare e poi della dc. La sartoria del romanzo è reinventata. Ma naturalmente riaffiora nella scrittura la memoria involontaria di tanti piccoli dettagli. Per esempio i rumori leggerissimi dell’ago che entra nella stoffa, del pedale della macchina da cucire, delle forbici che tagliano i tessuti, del gesso che li segna, l’acqua del ferro da stiro. E poi gli odori, il profumo dei clienti, il cuoio delle scarpe, il sapone».
Che cosa rappresentava la sartoria nella vita di provincia?
«Era il luogo dell’eleganza maschile. Ma anche un punto di incontro fra i clienti più fedeli. Anziché al bar all’epoca ci s’incontrava nelle botteghe artigiane o nelle farmacie. Prima di andare a cena si passava per un saluto in sartoria. Poi c’erano gli affezionati, quelli che quotidianamente ci passavano ore. Nella loro poltrona, come il signor Aldino del romanzo».
La solitudine è una cifra dei suoi romanzi. Fa paura, ma protegge. L’uomo Severini come considera la solitudine?
«Fa paura, protegge, ma è anche l’unica condizione per riflettere. Non parlo della solitudine totale, che non conosco, ma di quella di ore o di giorni. Quella delle passeggiate in montagna col cellulare spento. Quella euforica dei momenti in cui si è certi che la frase appena scritta è riuscita ad aprire le porte a ore di scrittura».
Com’è stata la sua infanzia?
«La ricordo con fatica, e ricordo soprattutto la cappa del lutto che avvolgeva ogni cosa, perché ero un orfano di guerra. Sono cresciuto con mezza famiglia, con mia madre che ha portato il lutto per lungo tempo. Ero molto accudito, sorvegliato, erano tutti terrorizzati dai pericoli, potevo vedere pochi amici selezionati. C’era molta solitudine ma anche ricordi belli. Perché i bambini sono soggetti strani, riescono sempre a trovare dei varchi per il fantastico e la meraviglia. L’Almanacco di Topolino, per esempio, era fonte di grande gioia».
C’erano tante letture?
«Leggevo tutto quello che potevo per scatenare la fantasia. La letture più consapevoli arrivarono più tardi, quando potei cominciare a frequentare la biblioteca. Verne, Salgari, i grandi romanzi di avventure. Si racconta che la mamma mi leggesse la Bibbia alla sera per addormentarmi, pare che senza la soporifera parola del Signore non mi addormentassi…».
Di suo padre invece che cosa ricorda?
«Morì in guerra in Montenegro. Non so granché di lui. In casa non se ne parlava, restava solo il peso del lutto che mia madre era costretta a portare. A causa di questa tragedia famigliare mi furono proibiti i giochi di guerra. Triciclo, fisarmonica, mai un fucile o una pistola, che erano i grandi oggetti del mio desiderio proibito».
E sua madre vedova era come la genitrice di Carletto con il melodrammatico scialle nero sulle spalle e i suoi silenziosi rimproveri?
«Mia madre era di una tristezza incredibile. La vedovanza le impediva la gioia. Le uscite con lei erano per andare al cimitero. Ricordo solo una volta al teatro e una al cinema, eccezionale, perché fu l’unica volta in cui la vidi ridere. Per un film con Stanlio e Ollio».
La sua vita, invece, è stata felice?
«Qualche volta ho cercato di farmela piacere. Ma spesso, mi è piaciuta davvero».
Esordì relativamente tardi. Come mai?
«In un file conservo l’incipit di un libro vagamente autobiografico che quasi certamente non scriverò: "Sono stato giovane molte volte, tranne che da giovane". Non ho avuto esordi alla vita particolarmente facili, orfano di guerra a sei mesi, malattie in casa e conseguenti difficoltà di ogni genere. Ma è andata così e non serve lamentarsene. Insomma, avevo altro da fare».
Tondelli la definì «Lo scrittore più sottovalutato d’Italia». Le fa piacere o rabbia?
«A suo tempo mi fece piacere, adesso fa sorridere continuare a leggerlo quasi in ogni recensione».
Come conobbe Pier Vittorio?
«Dovetti presentarlo a un incontro. Pier Vittorio arrivò di primo pomeriggio. Avemmo tempo di conoscerci. Era timido, gentile, ma anche divertente e curioso di tutto. Dopo l’incontro con il pubblico andammo a cena in un locale storico di Ancona, Lo Strabacco. Entrambi più rilassati, scoprimmo di avere in comune l’ammirazione per due autori del tutto incompatibili: Arbasino e Coccioli, pochissimo conosciuto in Italia. Il che rivelò una sorta di affinità alla base della nostra amicizia. Di quella serata resta una sua dedica su Pao Pao: "Per Gilberto intervistatore lesto" seguita dal suo indirizzo bolognese e il telefono. Era il 10 marzo dell’83. Due giorni dopo mi arrivò un espresso. Giorgio Mangani gli aveva dato, senza dirmelo, Consumazioni al tavolo, il mio primo romanzo, e lui lo aveva letto in treno. Ne era rimasto favorevolmente impressionato, e voleva dirmi subito quanto gli era piaciuto. Non ci vedemmo molte altre volte, non più di cinque o sei e per lo più durante convegni. Ci sentimmo però spesso al telefono e ci scrivemmo. Mi aveva chiesto anche di pubblicare in una collana che dirigeva in Mondadori e che durò pochissimo».
Perché ha sempre vissuto appartato?
«Non è del tutto vero. Ho sempre avuto amiche e amici in più città. Ho evitato il gruppo, le esibizioni in pubblico, cedendo pochissime volte. Ho un’idea artigianale della scrittura. Mi piace cercare di confezionare un oggetto che funzioni. Continuo a occuparmene sino alla fine. E quando lo consegno passo giorni a pensare che avrei dovuto lavorarci ancora. Però non so vendermi. Certe volte sento in televisione chiedere allo scrittore intervistato: ci dica perché dovrebbero comprare il suo libro? Ecco, una domanda così mi raggelerebbe. Non saprei cosa rispondere».
Perché ci sono sempre amori infelici? (anche se è un’infelicità molto composta)
«La felicità la racconta benissimo la pubblicità televisiva. Lo dico senza ironia. Talvolta riesce ad essere commovente. La pubblicità riesce a dare la nostalgia della vita. Ma poi, anche acquistando i prodotti che suggerisce i prati non sono così risplendenti, gli abbracci non così appassionati e non si riesce mai a impiattare la carbonara con quella scultorea appetitosa perfezione».
Il nuovo millennio sembra più libero nella sessualità. Ma lo è davvero? La libertà del corpo è anche una libertà di sentimenti?
«Difficile dirlo. La mia generazione era abituata all’attesa. Le nuove generazioni sono veloci, impazienti. Vengo dalle generazioni del Per Sempre. Ora ci sono le generazioni dell’Adesso. Difficile prevedere come evolveranno. Ma anche loro dovranno trovare il modo di sentirsi protetti e di proteggere, di trovare quelle sicurezze, per fragili che siano, che soltanto i sentimenti possono dare».
De Ceccatty ha detto che due sono i suoi padrini maestosi e clandestini: il Saba di «Ernesto» e il Bioy Casares dell’«Invenzione di Morel». E’ vero?
«Non sa quante volte ho riletto "Ernesto" immaginando di trovarci il finale che non c’è, perché Saba non lo ha mai terminato. Ho apprezzato Casares, de Ceccatty credo lo citi soprattutto per un mio racconto. Sono padrini illustri, ma più che modelli da assumere ho ammirato altri scrittori irraggiungibili. Che proprio per la loro irraggiungibilità mi hanno dato il senso dei miei limiti. Ed è stata una fortuna».
Che cos’è il senso di colpa?
«Varia con il variare dei valori sociali. Ma finisce sempre per riguardare l’aver deluso aspettative degli altri o le proprie. Negli anni Ottanta cominciò a circolare una parola molto sgradevole: perdente. Il mondo diviso in vincitori e perdenti. All’epoca reagii con una battuta: la vita non è un concorso. Non ebbe grande fortuna».