Quanti nomi meravigliosi – da Oliver Sacks a Douglas Hofstadter - sono passati per le nostre mani, grazie alle cure e alle intuizioni di quest’uomo che ha insegnato Informatica teorica all’università di Napoli e che oggi, in pensione, continua il suo lavoro di scouting scientifico.
Trautteur è uno svizzero napoletano, il che sembra quasi rinviare a una sorta di ossimoro. Come un ossimoro appare il suo libro edito recentemente da Adelphi Il prigioniero libero, una delle disamine più serrate che abbia letto intorno al concetto di libero arbitrio.
Affrontato da uno scienziato - esperto di calcolatori e mappe neurali ma, al tempo stesso, per anni vicino a Bobi Bazlen - il tema ha una evidente originalità.
È complicato parlare della libertà?
«Molto. Ci sono differenti modi per affrontarla. Ma ciascuno presenta delle falle».
La libertà non è essere liberi?
«Facile a dirsi, talmente facile che quella che lei pronuncia è una tautologia».
Perché mai allora occuparsene, perché dedicarvi un libro? Oltretutto, lei proviene da un sapere, quello scientifico, che ha sempre guardato con sospetto al libero arbitro.
«Ho dovuto attendere di compiere sessant’anni per
accorgermi che avevo accumulato parecchio materiale per affrontare finalmente il problema della libertà».
Lo dice come fosse stata una sfida.
«In un certo senso è così e non era facile accettarla e sostenerla».
Perché?
«Dane e fino alla maturità avanzata sono stato un cattolico romano osservante. Parallelamente veneravo la fisica, sia per tradizione familiare, mio padre era un fisico, sia in riferimento alla passione per alcuni tipi di oggetti che studiavo, smontavo, costruivo: orologi, radio, macchine fotografiche, modelli di aereo e di treno. Mi sembrava che le due anime non andassero d’accordo.
Forte il contrasto tra i testi di fisica e quelli teologici. Ho dovuto attendere che il Signore Iddio si liberasse di me o io di lui, perché finalmente decidessi il da farsi».
In un certo senso ha deciso liberamente.
«Apparentemente è così».
E invece?
«La questione è più complicata. Da un lato riteniamo che la nostra mente sia in grado, per una nostra decisione, di cambiare, anche di poco, il corso di certi eventi; dall’altro che la mente può agire solo attraverso il cervello, le cui mappe non controlliamo. Ma allora come si fa a parlare di decisione, visto che il cervello è una parte del nostro corpo, nonché dell’universo?».
Ma se il cervello è connesso con l’ambiente esterno reagirà a degli stimoli scegliendo. Che genere di scelta è?
«In realtà più che scegliere il cervello si trova davanti a delle conseguenze. La mente, più o meno illusoriamente, ci dà la sensazione di decidere; il cervello no. Il cervello reagisce alle sollecitazioni esterne. In un certo senso è È un prigioniero libero, per usare la sua formula?
«A tutti gli effetti una formula paradossale, difficile da sciogliere: siamo liberi o prigionieri?».
Molti neuroscienziati sostengono che non siamo affatto liberi. È una posizione riduzionista che elimina alla radice ogni dubbio sulla libertà.
«Il riduzionismo viene oggi percepito, soprattutto in ambito filosofico, quasi fosse una bestemmia. Io ricordo che James Watson, quello della doppia elica, diceva che non gliene fregava niente del dibattito intorno al tema, ma che una riduzione scientifica ben fatta era il meglio che potesse accadere alla scienza».
E il riduzionismo scientifico è sufficiente per annullare ogni pretesa di essere liberi?
«Indubbiamente no. La libertà coinvolge inestricabilmente la coscienza, per la quale tuttavia non c’è altro accesso che l’esperienza privata».
Intende dire che la convinzione interiore di sentirsi liberi non è garanzia di esserlo davvero?
«Sì, anche se la cosa è dibattuta».
Perché oscilliamo tra la sensazione di essere liberi e il sospetto di non esserlo davvero?
«Francamente non lo so. Ma credo che l’esperienza bruta di libertà sia originaria, forse evolutiva. Mentre il sospetto che non lo siamo ha presumibilmente origini religiose».
Sta alludendo alla dottrina della predestinazione?
«È una dottrina che, almeno in ambito cattolico, sostiene che la nostra salvezza o dannazione non dipende dalle nostre scelte ma dal piano divino. In parole più semplici, il cammino di una vita è già stabilito in partenza. La predestinazione, insomma, è una violazione della libertà.Come lo è il caso».
Il caso è ciò che non possiamo prevedere. La libertà più estrema e incontrollata.
«Il caso si oppone al determinismo e resta un’eccezione.
Ma come tale non ha niente a che vedere con la libertà, la quale ha bisogno di un’azione consapevole del soggetto.
Il caso no, il caso non si capisce perché accade, ma accade. È come se agisse per fatti suoi. In conclusione ci troviamo davanti a un problema irrisolvibile».
Come fa a dirlo con tanta sicurezza?
«Ho insegnato teoria del calcolo, mi sono occupato della macchina di Turing, e le assicuro che c’è tutta una vasta area di ciò che non si sa. Ad esempio problemi matematici per i quali non sappiamo se arriveremo mai a una soluzione. Per capirci è un po’ come quello che accadeva con la scolastica medievale, per cui come creature umane non sapremo mai cose che Dio sa».
In fondo questo suo libro più che fornire risposte tende a demolire le nostre povere certezze.
«Vorrei che in qualche modo la gente pensasse con la propria testa e fosse consapevole che per quanti sforzi si facciano non arriveremo mai a svelare, ammesso che ci sia, il senso profondo della libertà».
Non vi sarebbe libertà senza la coscienza, senza cioè la consapevolezza di stare davanti a una scelta per decidere quale alternativa riteniamo migliore.
«Apparentemente è così. Ma che cosa sappiamo della coscienza? Sull’argomento tenni un seminario agli inizi degli anni Novanta. Invitai i migliori studiosi di neuroscienze, psicologi, filosofi. Non ne venne fuori nulla. Tra costoro c’era anche Julian Jaynes, l’autore del Crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza,
un libro che feci pubblicare all’Adelphi».
Qual era la tesi del libro?
«I nostri due emisferi cerebrali – la parte che pensa e quella che sente – hanno funzionato separatamente fino a otto, dieci secoli prima di Cristo. Più o meno il periodo tra l’Iliade e l’Odissea. Jaynes sostiene che uno dei due emisferi era, in un certo senso, "abitato" dagli dèi che facevano percepire le loro voci all’altro emisfero. In seguito, questa separazione è crollata, le due metà si sono fuse fino a dar vita al soggetto consapevole che conosciamo oggi».
Quindi nel momento in cui la struttura bicamerale del cervello crolla nasce per Jaynes la coscienza?
«Esatto, e devo confessare che a tutt’oggi il libro resta la migliore introduzione a che cosa si debba intendere con coscienza. Ma con tutto il fascino mitologico e letterario anche Jaynes non arriva a una conclusione. Potremmo solo spingerci a dire che quelle "voci" oggi sopravvivono nel catalogo delle psicosi gravi».
La libertà è un concetto cui la filosofia politica fa spesso ricorso. Che peso le assegna?
«Come pratica il peso è di assoluto rilievo. La gente combatte e sacrifica perfino la propria vita per la libertà.
Aggiungo però che la filosofia politica non si occupa delle basi materiali di coscienza e libertà».
Se lo facesse cosa accadrebbe?
«Se dicesse che il libero arbitrio non esiste scomparirebbe il politico. Non avrebbe più senso parlare di dittatura o democrazia. Le cose accadrebbero come accadono in un termitaio o in un’arnia o nei fenomeni geologici».
Il fatto che la politica rivendichi il principio di libertà è dunque un’illusione?
«Daniel Wegner parla a questo proposito di inganno della
mente. La mente opera un trucco e ci fa credere che un’azione compiuta sia una nostra decisione».
Perché la mente avrebbe bisogno di un trucco?
«Wegner non lo dice. Ma sostiene che la mente con un trucco fornisce utili informazioni, ma a chi? Mi chiedo. E poi aggiunge che la corteccia prefrontale del cervello genera l’esperienza consapevole. In pratica si torna alla coscienza, cioè a quell’oggetto oscuro che non si sa che cosa sia, non lo sappiamo materialmente».
Lei demolisce ogni argomento favorevole alla libertà.
«Diciamo che non mi accontento di spiegazioni facili.
Questo non vuol dire che abbia la soluzione. Mi trovo, lo dico con franchezza, in una situazione difficile».
«Non penso che il libero arbitrio non esista, ma come si fa a dimostrarlo? D’altro canto, non posso neppure giustificare un crimine perché non siamo liberi di scegliere».
Di qui il "prigioniero libero"?
«È la conclusione paradossale».
Quindi, ritiene paradossale anche il rapporto tra mente e cervello?
«La relazione è indimostrabile. Da un lato io so che c’è una mente, una coscienza, aurorale. Ma come interagisce con il cervello? Qualcuno ha sostenuto che la coscienza ha origini neurali, ma le prove sono fiacche».
Se non c’è relazione, c’è un salto dal cervello alla mente?
«Il più misterioso che io conosca. A volte mi viene da pensare al medesimo salto che c’è nel sacramento dell’eucarestia. La transustanziazione del pane e del vino è altrettanto misteriosa».
Vedo che torna ai suoi argomenti giovanili.
«Ho una certa nostalgia dell’esser stato cristiano e cattolico».
Che effetto le fa vivere oggi senza Dio?
«Sono nella parte terminale della vita, ma invece di sentirmi inquieto mi sento più tranquillo. Non ho più l’angoscia del peccato».
In fondo ogni cosa che ha intrapreso l’ha radicalizzata.
«Pensare senza radicalità è come non pensare. Non mi accontento delle temperature tiepide».
Vale anche per i libri scientifici che sceglie per Adelphi?
«Certo, devono possedere una loro unicità che è data dalla capacità di tracciare il movimento del pensiero scientifico verso nuovi territori e insieme riflettere sui propri fondamenti. Lo si capì fin dal primo libro della collana».
Quale?
« Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson, lo pubblicammo mi pare nel 1977, un libro davvero unico».
Di unicità del libro, in un certo senso, parlava pure Bobi Bazlen. Come è stato il vostro rapporto?
«Lo conobbi negli ultimi anni della sua vita, tramite Roberto Calasso. Cosa dirle? È stato importante anche dal punto di vista personale. Ha provocato delle crepe nel mio cristianesimo bigotto e aperto a una spiritualità non necessariamente cristiana».
L’ultima volta che ci siamo visti mi parlava della sofferenza che le procura scrivere un libro. Ora che lo ha scritto?
«La difficoltà dello scrivere rimane».
Si è dato una spiegazione?
«Secondo me non ho nulla da dire, come può vedere questo mio libro non approda a nessuna soluzione».
Forse è questo il suo punto di forza. Come ha vissuto questo anno e mezzo di illibertà pandemica?
«Piuttosto male, con un senso di profonda destabilizzazione interiore. Anche pensare a delle cose divertenti del passato – come riparare un orologio o fare un viaggio con mia moglie in posti strani – non aiutava.
Forse occorrerà riformulare la parola "normalità". Quella che abbiamo perso, e quella che ritroveremo».
Cosa ci sarà oltre la pandemia?
«Il mio amato David Quammen, autore cassandresco di
Spillover, sostiene che potremmo avere pandemie molto peggiori. Io penso che il problema vero in futuro sarà legato all’inquinamento. È qui che il genere umano vincerà o perderà la sua partita decisiva».