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 2021  maggio 08 Sabato calendario

Intervista a Kazuo Ishiguro - su "Klara e il Sole" (Einaudi)

Nel suo discorso di accettazione del Nobel, che può essere considerato una vera e propria autobiografia letteraria, aveva parlato della necessità, in letteratura, di una maggiore diversità, non solo per nazionalità ma anche per classi sociali. Per questo, mi dice Kazuo Ishiguro dal suo studio di Londra, durante le varie presentazioni online fatte con gli scrittori delle nuove generazioni, ha stilato una lunga lista di letture, in cima alla quale c’è Yaa Gyasi, una scrittrice americana di origini ghanesi. Sessantasei anni, originario di Nagasaki ma immigrato in Inghilterra da bambino, ordinato Sir nel 2019, Ishiguro è al suo ottavo romanzo, Klara e il Sole, che diventerà anche un film. Dopo un paio di titoli (Un pallido orizzonte di colline e Un artista del mondo fluttuante) scritti per «preservare la mia idea di Giappone, per quanto fosse unica e terribilmente fragile», Ishiguro, viaggiando tra generi letterari, dal distopico al dramma al fantasy, è autore di libri fondamentali come Quel che resta del giorno e Non lasciarmi, dove l’interesse è concentrato su vite sprecate le cui domande sono: «Che cosa è una vita? Che cosa significa essere umani?».

È vero che “Klara e il Sole” avrebbe dovuto essere il suo primo libro per bambini?
«Il mio editore me lo chiedeva da tempo. Mi sono sempre piaciuti i libri per bambini, leggerli a mia figlia. Di solito, sono testi in cui gli adulti cercano di proteggere i più piccoli dagli aspetti oscuri del mondo, ma anche di prepararli al fatto che niente duri per sempre. Così iniziai a pensare a una storia e ne parlai con mia figlia Naomi, che ai tempi lavorava in libreria. Era il 2013, circa, e lei mi disse categoricamente che no, non andava bene perché i bambini ne sarebbero usciti sconvolti. Rimasi deluso, ma poi dissi ok, la scriverò per adulti».

L’idea di bambini geneticamente modificati, potenziati per essere adatti a stare al mondo, come le è venuta?

«Non è una mia idea. Dopo Non lasciarmi, avevo iniziato a ricevere molti inviti a seminari e conferenze su etica e scienza, dove ho assistito a confronti molto interessanti tra grandi scienziati e persone della società civile. Così negli ultimi anni mi sono sempre più appassionato all’intelligenza artificiale, ma non pensavo che ci avrei scritto un romanzo».

Cosa è successo poi?
«Sono giunto alla conclusione che l’editing genetico fosse ormai diventato un argomento sul quale noi, come società, dobbiamo iniziare a prendere coscienza, dal momento che è un ambito che si muove molto velocemente. L’anno scorso, il Nobel per la chimica è andato a due scienziate, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna - che tra l’altro aveva scritto un libro, A Crack in Creation, che in Gran Bretagna era stato un bestseller -, proprio per avere sviluppato un metodo per l’editing del genoma. Che cosa comporterà tutto questo? Potrebbe essere fantastico per la medicina, perché molte malattie, incluso il Covid e le sue future versioni, potrebbero essere contrastate. Ma solleva anche moltissimi dilemmi: un genitore, con i soldi e le connessioni giuste, vi ricorrerebbe per dare al proprio figlio certi vantaggi? Sono domande che dovremmo incominciare a prendere molto seriamente, perché cose simili sono già possibili, e noi, come genere umano, non abbiamo ancora deciso come porci».

Nel suo romanzo, ha immaginato bambini in DAD perenne. È vero, come dice qualcuno, che gli scrittori hanno poteri divinatori?
«Non credo a poteri speciali, quanto piuttosto al fatto che gli scrittori di fiction, mettendo gli esseri umani in certe situazioni, riescano a immaginare quali potrebbero essere i loro sentimenti e le loro reazioni. Si pongono in anticipo domande come: “Quali valori prevarranno?”».

C’è una visione teologica dietro l’adorazione del sole da parte di Klara?
«Sì, per lei è Dio. Volevo mostrare l’impulso religioso puro, senza quel carico di storia, conflitti e politica che le religioni ufficiali si portano dietro. Essendo una macchina, Klara non ha pregiudizi. L’unica conoscenza che ha è che il sole è fonte di vita per tutti, indistintamente, e per questo è convinta che nel mondo ci sia qualcosa di buono».

Come può un robot spiegarci che cosa è un essere umano?
«Nella fiction, qualsiasi cosa può stare per l’essere umano, perché i personaggi sono sempre fittizi, fatti di parole scritte su una pagina. Tutta l’esperienza della fiction è in un qualche modo metaforica. Perciò non ho mai pensato che avere un protagonista non ufficialmente umano fosse un problema. Anzi: quando hai personaggi del genere, la domanda “che cosa è o non è umano” viene fuori ancora di più. Inoltre, Klara è una narratrice molto speciale. Se fosse venuta, che ne so, da Marte, avrebbe portato con sé i valori marziani, e la sua storia non sarebbe stata che un continuo paragone tra i suoi valori e quelli terrestri. Mi piaceva invece l’idea che Klara arrivasse con niente, un foglio bianco, e con il potere di imparare molto velocemente. Da una parte rimane bambina, dall’altra fa ragionamenti molto sofisticati, e questo fa di lei una narratrice molto pulita».

Suo padre è stato un oceanografo inventore di una macchina per predire le mareggiate nel mare del Nord. Da qualche parte ho letto che questa macchina, ormai obsoleta, fosse finita in un angolo del vostro garage fino a quando qualcuno non l’aveva reclamata per esporla al Science Museum. Questo mi ha fatto pensare alle scene finali del suo romanzo, che si svolgono in una specie di misterioso magazzino dove finiscono le cose che non servono più.
«Non mi era mai venuta in mente questa associazione, forse ha influito a livello inconscio. Ricordo benissimo la tristezza di mio padre quando la sua invenzione, che aveva segnato il passaggio dall’era analogica a quella digitale, venne ritenuta superata e mi dispiace che non fece in tempo a vederne l’happy ending. Quando ho pensato alla fine di Klara, comunque, avevo in mente mia madre che in quel periodo si trovava in una casa di riposo, e al destino delle persone anziane».

Perché i suoi protagonisti non si ribellano mai al loro destino?
«Ho due risposte. La prima è che, mentre nei film di Hollywood siamo abituati a vedere un sacco di gente che si ribella, nella vita vera le persone non si ribellano poi così tanto. Anzi, è molto più probabile che accettino la vita che gli è capitata: rimangono in cattivi matrimoni, in lavori deludenti, in luoghi terribili. La storia degli esseri umani non è una storia di ribellione naturale. Può sembrare tragico, ma io ci trovo anche qualcosa di eroico: le persone stanno dove sono e cercano di fare del loro meglio con quello che hanno».

La seconda qual è?
«In realtà, io sono convinto che i miei personaggi a modo loro si ribellino. I protagonisti di Non lasciarmi credono di potersi sottrarre al loro destino grazie all’amore. Klara crede nel Sole e per questo prega e ha speranza nel fatto che la sorte di Josey possa cambiare. Per me questo è il modo in cui molti si ribellano: non soccombendo e sperando».

Il cuore di questo romanzo è il “cuore”: se gli esseri umani ne hanno uno, se i robot ne hanno uno. Che cosa è il cuore per lei?
«Da sempre gli esseri umani vogliono credere di non essere solo dei corpi, ma di avere qualcosa - per qualcuno è “l’anima” - che li rende in qualche modo speciali, e questo nonostante la scienza non lo abbia mai provato. Ma in un tempo in cui scienza e tecnologia mappano sempre più a fondo le nostre menti, dove i raccoglitori di dati sembrano predire cosa vorremo comprare e fare tra tre mesi, possiamo ancora credere di essere “speciali”? Non me lo chiedo da un punto di vista filosofico o scientifico: quello che mi interessa è capire se inizieremo a pensare a noi stessi in modo diverso, se proveremo sentimenti differenti per gli altri, se la natura dell’amore cambierà. Il cuore è una metafora, come lo è l’anima: quando amiamo, o odiamo, qualcuno, abbiamo bisogno di credere che questi sentimenti non li stiamo provando per un guscio vuoto, ma per ciò che di unico e speciale abita dentro quel corpo».

Spesso i suoi personaggi sembrano vivere in lockdown auto imposti. Che differenza c’è tra quelli e i lockdown dell’ultimo anno?
«Anche se normalmente facciamo grandi sforzi per dimenticarlo, nella vita arrivano momenti, come i lockdown, quando proviamo dolore o siamo di fronte alla morte, in cui noi esseri umani ci ricordiamo di quanto siamo soli. Questa cosa mi viene sempre in mente quando, nelle partite di calcio, si arriva ai calci di rigore e vedo il giocatore a cui tocca tirare pieno di terrore per essere stato separato dalla squadra e per il fatto di trovarsi completamente solo con la paura di sbagliare».

Sua figlia Naomi ormai è una scrittrice con all’attivo un libro di racconti - “ Vie di fuga” pubblicato da Einaudi - e un romanzo, “Common Ground”. Che consigli le ha dato?
«Tutti pensano che sia stato io ad aiutare lei, ma la verità è un’altra. Le faccio un esempio: dopo aver letto quella che io credevo fosse la versione finale di Klara e il Sole, mi ha fatto una tale quantità di note che mi hanno richiesto altri due mesi di lavoro sul romanzo. Mi creda, non è facile darle dei consigli, il suo cervello è talmente migliore del mio che, a volte, mi fa quasi spavento. Forse sarebbe meglio chiedere a lei che cosa ha consigliato a me!».

Klara è programmata per credere nel cuore umano
La letteratura è stata, finora, il paradiso terrestre dell’intelligenza artificiale, una palestra dove provare scenari e verificare reazioni e fattibilità. Duecento anni dopo Mary Shelley e il suo triste Frankenstein, gli scrittori, anche quelli non «di genere» - che è sempre un modo piuttosto limitato per classificare l’ingegno - continuano di gusto a esplorare mondi post o infra umani. Ultimi in ordine di tempo, e in terra britannica, sono stati Ian McEwan (Macchine come me, 2019) e Jeanette Winterson (Frankissstein, 2019), over 60 e ultra affermati, ai quali ora si affianca Kazuo Ishiguro con il suo Klara e il Sole.

È la storia di Klara, una ginoide (termine pochissimo usato, tiriamolo fuori) adottata dalla piccola Josie colpita da una misteriosa malattia dovuta a una «modificazione genetica». Quelli come Klara, in questa ucronia distopica di un’America-quasi per niente America, vengono chiamati AA, cioè Amici Artificiali, caregiver (come Kathy in Non lasciarmi) con la missione di alleviare la solitudine di bambini in perenne DAD, per i quali giocare con gli amichetti è diventato una materia di studio, «interazione sociale». Klara è «nata» dentro un negozio di suoi simili e ama prendere il sole in vetrina, quel Sole che lei adora come un dio in quanto unica fonte di vita per ogni essere vivente e con il quale stipula un patto segreto per salvare la sua bambina.

Al centro di Klara e il Sole, che è il primo romanzo di Ishiguro dopo il Nobel nel 2017, c’è quello che, per secoli, è stato identificato come il simbolo supremo dell’umanità, il cuore. Un uomo a un certo punto chiede a Klara: «Tu credi al cuore umano? Non intendo semplicemente l’organo, è ovvio. Parlo in senso poetico. Il cuore umano. Tu credi che esista? Qualcosa che rende ciascuno di noi unico e straordinario?». La ginoide Klara non lo sa, però di una cosa è convinta, che lei una cosa come il cuore può impararla: «Io credo di avere tanti sentimenti. Più cose osservo, e più acquisisco accesso a nuovi sentimenti».

Come tutti i romanzi di Ishiguro, abilissimo creatore di universi chiusi da dentro -in particolare Non lasciarmi e Quel che resta del giorno, che sono quelli che vengono più alla mente leggendo quest’ultimo –, anche Klara e il Sole ha una sua specifica qualità geologica: si parte da uno strato superficiale, vestito da futuribile, e si scava verso un centro antico quanto il pensiero dell’uomo su se stesso: che cosa, in ultimo, ci rende umani? Ishiguro non lo dice mai forte, però leggendolo lo si intuisce un po’ ovunque: amare ed essere amati.