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 2021  maggio 15 Sabato calendario

Il segreto di Frugoni

La chiave del racconto è in quell’anno avvolto nel mistero, tassello mancante che rischia di far saltare il puzzle d’una vita. Il 1944 è anche l’annushorribilis della guerra civile in Italia. A maggio, o forse giugno, il trentenne dottor Arsenio Frugoni esce dalla sua casa di Solto Collina, inforca la bicicletta e pedala per un centinaio e passa di chilometri fino ad arrivare nel cuore nero dell’insediamento nazista nella penisola. A Gargnano, sul Lago di Garda, l’aspettano gli ufficiali tedeschi che hanno l’incarico di sorvegliare Mussolini. Quel rito si ripeterà con puntualità fino alla primavera dell’anno successivo: la pedalata, il percorso più o meno impervio, l’approdo nel palazzo della Wehrmacht. Che ci fa il futuro grande maestro della medievistica in un luogo simbolo della Repubblica sociale italiana? E perché nel dopoguerra non ne avrebbe mai voluto parlare, con il silenzio complice degli ambienti cattolici bresciani? A sciogliere l’enigma provvede dopo tanto tempo l’ostinata ricerca di Gianni Sofri, allievo oggi ottantaquattrenne di Frugoni che ha voluto ricomporre quella pagina strappata.
Ed è qui il fascino de L’anno mancante, un libro che si può leggere seguendo traiettorie diverse: da una parte il progressivo disvelamento dell’arrischiato ruolo di diplomazia clandestina svolto da Frugoni presso le sfere militari del nazismo e dall’altra il lungo viaggio di conoscenza intrapreso dall’autore, il quale non cede mai alla tentazione di imboccare la strada più dritta, quella che conduce alla oleografia del professore antifascista, ma vaglia attentamente tutti i sentieri laterali più ardui, a tratti scivolosi, lungo le zone di ambiguità in cui operavano resistenti cattolici e ufficiali della Wehrmacht all’interno del perimetro bresciano. A Sofri, studioso di India e di Gandhi, non è toccato un compito facile. A distanza di tanti anni sono venuti meno i testimoni. E alcuni documenti di Frugoni, come la tessera da capitano d’una brigata partigiana, sono solo un ricordo della figlia Chiara e dell’ex genero Salvatore Settis, oggi perduti in qualche trasloco. Però le ossessioni hanno una parte importante nella ricerca storica. Ed è grazie a queste che Sofri riesce a completare la sua indagine cominciata trent’anni fa con la compilazione della voce Frugoni del Dizionario Biografico.
Di quel giovane studioso che inforca la bicicletta sappiamo che non s’era mai iscritto al Partito fascista, e alla Scuola Normale di Pisa non aveva mai fatto segreto della sua contrarietà al regime. A Gargnano, quando passa la macchina del duce, nel tripudio dei saluti littori è l’unico a tenere il braccio piegato. Che non fosse fascista lo sapeva anche il capitano Otto Joos, di stanza all’ufficio di collegamento della Wehrmacht sin dal marzo del 1944. E forse lo sapeva anche il suo capo, il generale Alfred Jodl, uno dei più importanti dello staff del Führer: era stato Jodl a chiamare Frugoni come interprete e suo insegnante di italiano. Ma perché tanta tolleranza intorno all’elegante professore sideralmente estraneo al richiamo violento delle svastiche? La sua presenza faceva comodo a molti. Ai tedeschi non dispiaceva, nelle valli del bresciano,la distensione dei rapporti con il partigianato cattolico. E agli ambienti raccolti intorno all’Oratorio della Pace dei padri Filippini, di cui Frugoni era assiduo frequentatore, tornava utile avere un proprio uomo nel cuore della concentrazione militare nemica. Un tessitore diplomatico capace di salvare la vita agli antifascisti caduti nelle maglie della Rsi. E abile nel fornire notizie preziose per la Resistenza.
Come dimostrarlo? Come dare fondamento ai ricordi di famiglia che evocano gruppi di partigiani nella casa di Solto («venivano a sfamarsi») o lo stesso Frugoni incupito dalla delicatezza della singolare missione? («A malincuore assunse un incarico a favore dei nostri connazionali», racconta il cognato Piero Chiappa). La testimonianza-chiave arriva dalla Germania, dal capitano Joos, che in una lettera indirizzata alla figlia Chiara fa esplicito riferimento al lavoro “pericolosissimo” svolto dal padre in quei mesi, “un capolavoro” scrive con sorprendente ammirazione alludendo allo spionaggio partigiano di Frugoni, durato fino all’arrivo a Gargnano “di un ex normalista dai capelli rossi” che è al corrente della sua attività. È a quel punto che il professore abbandona precipitosamente l’incarico di interprete, consapevole dei rischi mortali a cui è esposto.
Ma come si spiega il velo di tenebra caduto sulla vicenda nel dopoguerra? Qualcuno dei suoi “salvati” arrivò ad accusare Frugoni di collaborazionismo, altri lo premiarono con la tessera da partigiano. Probabilmente alla fine della guerra – è l’ipotesi avanzata da Sofri – il solo fatto di essere stati oggetto di una mediazione con i nazisti poteva confliggere con l’immagine di granitica coerenza che si voleva offrire di sé. Anche gli ambienti cattolici bresciani preferirono custodire il lavoro diplomatico di quel figlio illustre tra i segreti di famiglia. E a Frugoni, ferito dall’ingratitudine o dal biasimo di qualche ipocrita, non rimase che chiudersi in un dolente riserbo. Forse sapeva che la storia – o meglio uno storico – gli avrebbe restituito l’onore seppellito sotto il lungo silenzio.