Ma quel giorno c’è la rottura traumatica con un gruppo importante di fan: archiviata l’adorazione si passa ai fischi, ai buuu da loggione. In effetti, e questo lo dico anche sul piano personale, per chi ha studiato le prima produzione di Dylan, le pietre miliari di un’epoca, da Blowing in the Wind a Mr. Tamburine Man, la reazione è comprensibile. Il pubblico di Newport sentì prima di tutto il tradimento della tradizione folk pura, di quel lascito straordinario di artisti come Woody Guthrie prima e Pete Seeger di cui Dylan avrebbe dovuto raccogliere l’eredità per decenni a venire. Per capire meglio questo passaggio e soprattutto per cercare di afferrare il personaggio Dylan dietro le quinte ho sentito Ron Delsener, uno dei più importanti promotori nella storia del rock americano. Oltre a contribuire all’organizzazione dei concerti di Dylan proprio in quegli anni, è stato fra i promotori del primo concerto dei Beatles all’aperto, a Forest Hill nel Queens, nell’estate del 1965, ma è stato anche il creatore, nel 1966, dei concerti per un dollaro al pattinaggio Wollman a Central Park, con performance di chiunque, dai Led Zeppelin a Louis Armstrong, Joni Mitchell, Otis Redding. Poi ha portato i concerti rock sempre a Central Park, ma più a nord — ricordiamo fra tutti quello di Simon e Garfunkel del 1981. Nato e cresciuto nel Queens, Ron ha un padre italiano, di San Benedetto del Tronto. Mi racconta che si chiamava Ercole Vincenzo del Zumpo e che a Ellis Island, per rendergli la vita da immigrato più facile cambiarono d’ordinanza il nome in Delsener. Un miracolo che questo dettaglio sia sopravvissuto. Ma a quasi 85 anni Ron resta una delle memorie storiche del rock americano. Gli chiedo se non si sente in parte responsabile per questo passaggio all’elettrico di Dylan e mi fa, con sicurezza, alcune rivelazioni per me inedite, soprattutto così, di prima mano.
«La decisione del passaggio all’elettrico è stata sempre e solo di Bob. Il primo episodio fu a Newport, ma quello più brutto che lo lasciò ancora più amareggiato fu proprio a Forest Hill, un mese dopo, il 28 di agosto del 1965. Fu una serata disastrosa, dopo i primi 40 minuti di acustica passò all’elettrico con la band e fu un disastro anche perché i fan sapevano cosa era successo a Newport e lo attendevano al varco. Perché il passaggio? La mia tesi è che Bob era stato influenzato moltissimo dai Beatles e non è un caso che il passaggio avveniva a cavallo del concerto dei Beatles allo Shea Stadium del 15 agosto. Fu il più grande concerto di tutti i tempi e Bob era con loro. Restò con loro dopo il concerto, era totalmente affascinato dalla loro performance».
Ma Dylan aveva seguito il rock molto prima, ammirava e seguiva anche Elvis Presley…
«Certo, ma per me il passaggio poi si concretizza con l’influenza dei Beatles, nel giro di un anno. Il 24 settembre del 1964 Dylan è dietro le quinte coi Beatles al concerto di beneficenza che fecero al Teatro Paramount, l’ultimo appuntamento americano prima di rientrare a Londra. Quell’anno il ’64, resto storico per il debutto dei Beatles in America. Dylan fu colpito dalla forza emotiva di questo gruppo e questo forse accelerò il passaggio all’elettrico che avvenne appena un anno dopo, a cavallo del secondo tour americano. Ricordo, proprio al Paramount, John Lennon e Dylan che parlavano proprio dell’elettrico. Poi di nuovo nel ’65, dopo Shea Stadium, Bob andò coi Beatles al Warwick Hotel. Ma di nuovo dietro le quinte ricordo John Lennon che rassicurava Bob sui fischi che aveva avuto per il passaggio elettrico poche settimane prima, "È una cosa passeggera — gli diceva, vedrai che torneranno con te". Ma poi a Forest Hills dieci giorni dopo fu un altro disastro».
Com’era Bob dietro lo quinte?
«Aveva uno status di star assoluta. Inavvicinabile. I miei rapporti con lui passavano soprattutto attraverso il suo agente, prima Grossman e poi Rosen, noi ci occupavamo della parte business non di quella artistica e Bob per natura era molto riservato, introspettivo. Un grandissimo professionista, mai un ritardo, mai una sbavatura. Sempre perfetto».
Come puoi caratterizzare il primo incidente di Newport?
«Ricordo di aver letto su un giornale una frase che diceva: "metà del pubblico era elettrizzata, l’altra metà era sulla sedia elettrica"».
Cosa pensano di lui oggi, che compie 80 anni fra pochi giorni, i grandi della musica contemporanea, Springsteen ad esempio?
«Ho visto Springsteen in New Jersey alcune settimane fa, ma non abbiamo parlato di Dylan, so però che lo ammira molto e scrive in uno stile simile».
Perché è così ammirato anche dai suoi compagni d’arte?
«Perché è uno dei musicisti più versatili che abbia mai conosciuto. È così incredibile, continua a scrivere, a innovare, a cambiare, non si ferma mai. E scrive testi importanti, critici delle ingiustizie del nostro tempo. L’unico altro che metto a suo pari come creatività e reinvenzione è Paul Simon, un altro gigante».
Dunque passati gli Ottanta non si fermerà…
«Ma scherzi? Beh è stato fermato dalla pandemia. Ma fino ad allora abbiamo sempre lavorato con lui a organizzare concerti lungo un periodo di 50 anni! L’ultima è stata una serie di dieci concerti dal 21 novembre al 6 dicembre del 2019 al Teatro Beacon a New York. Ogni sera c’erano 2.700 persone. Tutto esaurito. E si era aperto, prima era molto chiuso introspettivo, isolato, ma dopo il concerto ha chiesto di vedermi dietro le quinte. Era felice e rideva, rideva dalla felicità per questo suo rapporto col pubblico. Gli ho detto: "Hai fatto un lavoro fantastico puoi continuare così per il resto della tua vita. E infatti, appena Covid e prevenzioni ce lo consentiranno, Bob tornerà sul palco. Non ho dubbi che sarà fra i primi».