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 2021  maggio 15 Sabato calendario

Biografia di Marcell Jacobs raccontata da lui stesso

Il suo primo ricordo di bambino. «Sono a Desenzano del Garda, corro velocissimo in cortile. Mio nonno Osvaldo sorride: motoretta, ma dove vai? mi chiede. Tutta la famiglia di mamma Viviana faceva motocross, ma lei da subito mi ha detto che non mi avrebbe lasciato andare in moto. Troppo pericoloso. E allora io imitavo gli altri: correvo in giro, simulavo i salti sulla rampa del garage, facevo il matto e i suoni con la bocca. Brrruumm!».
Il centauro mancato è diventato l’uomo più veloce d’Italia. 9”95 sui 100 metri al meeting di Savona di giovedì, un tempo di eccellenza mondiale. Più rapidi di Lamont Marcell Jacobs, 26 anni, nativo di El Paso (Texas), poliziotto, bresciano lacustre capace di migliorare il totem Pietro Mennea (10”01, 1979) e l’amico-rivale Filippo Tortu (9”99, 2018), quest’anno hanno sfrecciato solo in quattro, tutte stelle della superpotenza americana. Che a Marcell ha dato il 50% dei geni – papà Lamont è un ex militare dell’Us Army alla base di Vicenza —, fibre muscolari di velluto pregiato, un certo gusto per il kitsch firmato, alla maniera delle stelle dell’Nba, stop: «A 18 mesi ero in Italia, i miei figli sono nati qui. Mi sento italiano in ogni cellula del mio corpo, tanto che con l’inglese sono in difficoltà». Quella di Jacobs è una storia di sport che si arrampica sui tornanti della vita in un abbraccio appassionato, tanto da trasformare il suo privato in un illuminante argomento di conversazione. 
Riavvolgiamo il nastro, Marcell. Torniamo a Desenzano, in quel cortile, dove suo padre Lamont non c’è. 
«Mio padre, da bambino, non lo ricordo. Dal momento in cui con mamma siamo rientrati da El Paso, è cominciata la nostra personalissima sfida a due. A scuola ero in difficoltà. Disegna la tua famiglia, mi diceva la maestra: io avevo solo mia madre da disegnare e ci soffrivo. Chi è tuo papà, mi chiedevano gli amici da ragazzino: non esiste, rispondevo, so a malapena che porto il suo nome. Per anni ho alzato un muro. E quando mio padre provava a contattarmi, me ne fregavo». 
Recentemente, però, è cambiato qualcosa. C’è stato un importante disgelo che forse spiega anche i suoi miglioramenti nell’atletica e il suo record. 
«Ho incontrato una brava mental coach, Nicoletta Romanazzi, che è entrata nel mio team insieme all’allenatore Paolo Camossi. Con lei ho accettato di lavorare in profondità sulle mie paure e sui miei fantasmi. Non è stato facile: c’è una parte intima che non vogliamo mostrare nemmeno a noi stessi. Però imparo in fretta. Il lavoro psicologico è iniziato a settembre dell’anno scorso e in sei mesi ho ottenuto un oro europeo indoor, due record italiani, l’argento mondiale nella 4x100 con il lanciato più veloce, il 9”95 di Savona». 
E, risultato più prezioso, un nuovo rapporto con Lamont senior. 
«Non è ancora tutto risolto, però almeno con papà ora comunichiamo. Cioè, io copio e incollo: il traduttore di Google mi dà una mano quando non capisco. Lo so, lo so, dovrei rimettermi a tavolino a rispolverare la grammatica inglese: i termini li conosco, è che per paura di sbagliare mi paralizzo e sto zitto». 
Come si sente, ora che il ghiaccio è rotto? 
«Sbloccato. È incredibile la potenza dell’energia che si muove quando abbatti un muro. Lo odiavo per essere scomparso, ho ribaltato la prospettiva: mi ha dato la vita, muscoli pazzeschi, la velocità. L’ho giudicato senza sapere nulla di lui. Prima se una gara non andava bene davo la colpa agli altri, alla sfortuna, al meteo. Adesso ho capito che i risultati dipendono solo dal lavoro e dall’impegno». 
Prima la pista era in salita, ora in discesa. 
«Qualcosa di simile. A Savona ho corso decontratto: sono partito così così, nel lanciato mi sono piaciuto ma dopo 15 metri ho visto che non avevo nessuno accanto, senza punti di riferimento è tutto più difficile. Mentre mi mancavano gli ultimi passi ho guardato il cronometro: 8 secondi... di già! Insomma non è stata una delle mie gare migliori, si può decisamente limare qualcosa». 
Meno 68 giorni ai Giochi di Tokyo: con quali ambizioni ci arriverà, ora che la sua dimensione di sprinter è cambiata? 
«L’obiettivo della stagione era scendere subito sotto i 10” e non pensarci più. Però è dalla prima volta che ho messo piede in pista, a 9 anni, che ho in mente l’Olimpiade. Avevo attaccato al muro della cameretta la pagina di giornale con la famosa pubblicità di Carl Lewis sui blocchi con i tacchi a spillo. Ma il mio idolo da ragazzino era Andrew Howe: mulatti e mezzi americani tutti e due, mi rivedevo troppo in lui. A Tokyo vado per vincere una medaglia: non c’è Bolt, non c’è Coleman, non c’è un favorito numero uno, sarà battaglia. No, il mio sogno non lo metto da parte proprio ora». 
Sognava di diventare un campione dello sport già da piccolo? 
«No, no. Da bambino mi piacevano i fossili: volevo diventare archeologo. In alternativa, astronauta. Però per entrambe le professioni c’era da studiare e io avevo poca voglia di stare sui libri. In terza media sono stato bocciato». 
Che padre è con i suoi tre figli? 
«Con Jeremy, che è nato quando avevo solo 19 anni, non sono stato il migliore dei papà: ero immaturo, limitato, i contrasti con sua madre mi hanno allontanato, ma ora sto cercando di recuperare il tempo perduto. Con Anthony e Megan, che ho avuto dalla mia compagna Nicole, è tutta un’altra storia. Abbiamo una quotidianità che con Jeremy mi è mancata: sono un padre presente e giocherellone». 
Livio Berruti e Pietro Mennea sono la storia dello sprint italiano nei 200 e nei 100. Non ha l’età per averli visti in azione: significano qualcosa gli antenati per lei? 
«Non li ho vissuti né conosciuti. Ma so bene quello che hanno fatto in pista e non mi sento proprio di mettermi a paragone: io ho scritto una pagina, loro tutto il libro». 
Mennea correva dietro la Vespa guidata dal professor Vittori, lei si è allenato dietro lo scudo aerodinamico messo a punto dall’Istituto di Scienza dello Sport del Coni, cioè un’auto con il retro schermato per ridurre la resistenza dell’aria in rettilineo. Funziona? 
«In realtà ho usato lo scudo una volta e mezza, la prima per testarlo dopo l’oro europeo indoor. È uno strumento super utile: raggiungi velocità impensabili e puoi rivedere l’azione di corsa grazie alle telecamere che ti riprendono». 
Paolo Camossi, ex triplista, suo mentore e coach, è anche un secondo padre? 
«In cerca di una figura maschile che riempisse i vuoti di mio padre, in passato ho commesso l’errore di confondere i ruoli. Paolo è il mio allenatore, un punto di riferimento importante. Lo prendo in giro quando piange per le mie vittorie, però non mi offendo più se non mi calcola abbastanza». 
Ho raggiunto l’equilibrio perfetto, ha detto a Savona, Marcell. 
«È vero. Nella corsa, in famiglia, nel team di lavoro. Dentro e fuori di me». 
Si è fatto un regalo dopo il 9”95? 
«Mi tolgo spesso gli sfizi: non perché me lo merito ma perché lo voglio fare. Mi piacciono le macchine, i vestiti trendy, i locali chic. Amo i tatuaggi, che raccontano la storia della mia vita: la frase sull’amicizia nata da un patto con chi mi conosce da più tempo, le date di nascita dei figli e dei fratelli, la rosa dei venti che è la mia bussola, il Colosseo perché a Roma devo tanto, la tigre che è il mio animale e mi rappresenta». 
Tatuaggi, collane, orecchini. Tutto rimanda ai simboli e alla cultura delle star afroamericane dell’Nba. 
«Ce l’ho nel sangue. Mi piace non passare inosservato, distinguermi dagli altri. Anzi, mi piace proprio dare nell’occhio!». 
Cosa ricorderà di più del record di Savona? Il tempo, gli abbracci, l’emozione? 
«Mio figlio Anthony (Megan è ancora troppo piccolina) che quando torno a casa e suono il campanello mi corre incontro gridando: daddy!». 
Perché non ha dato nomi italiani ai suoi figli? 
«Perché ho un cognome americano: Paolo Jacobs suonava malissimo».